giovedì 15 ottobre 2009

Whatever Works - Basta che funzioni

Woody Allen

C'è qualcosa di oraziano (Quinto Orazio Flacco) nel cinema di Woody Allen; e infatti “Whatever Works - Basta che funzioni” è una lezione di epicureismo oraziano per tempi disperati. Ricordiamo come già nel bellissimo “Vicky Cristina Barcelona” il nichilismo porti a un elogio della sessualità, grazie a quel tanto di felicità che regala, un attimo di consolazione nelle tenebre. Ora, le tenebre del nichilismo sono l'habitat mentale di Boris, anziano misantropo iper-pessimista - “la nostra è una specie fallita” - tale da far impallidire le sue varie incarnazioni alleniane precedenti (un'eccellente interpretazione di Larry David). Nobel mancato per la fisica anni prima, soggetto ad attacchi di panico in cui grida “the horror, the horror” come il Kurtz di Conrad, divorziato, zoppo per un tentato suicidio, vive insegnando gli scacchi a dei poveri bambini che tratta malissimo (“Scacco matto, stupida cimice”). E' convinto di essere un genio in un mondo di cretini, e non lo tiene certo nascosto.
Un giorno per ringhiosa generosità si prende in casa una giovanissima vagabonda morta di fame, Melodie (Evan Rachel Wood), gustoso prototipo della ex reginetta di bellezza ignorantella del deep South, in fuga dalla famiglia religiosa e moralista. Sempre tra insulti e villanie, Boris diventa il suo Pigmalione. Ma anche Melodie (nomen omen) gli dà qualcosa: lo cura dalla tristezza, se non sul piano filosofico, almeno su quello esistenziale. Morale, Boris se la sposa. Fine del primo atto (“Wathever Works” è uno dei più teatrali fra i film di Allen: con qualche aggiustamento minore, potrebbe benissimo esser recitato in palcoscenico). Nel secondo atto, arrivano dal Mississippi prima la mamma e poi il papà (divorziati) - con sviluppi totalmente imprevedibili. I due Southerners ultraconservatori, Marietta e John, trovano la propria verità sviluppando quella loro identità sessuale che avevano sempre negato: i loro nuovi gusti a letto farebbero venire i capelli dritti a Jerry Falwell e a Jimmy Carter, ma che importa: “basta che funzioni”. Intanto la “Mighty Aphrodite” (“La dea dell'amore” - una vera potenza nell'universo alleniano) continua a tessere...
Semplice e areo, con tutto il suo pessimismo filosofico “Whatever Works” è una delle commedie più sorridenti di Woody Allen: lontana per esempio dalle complicazioni tragicomiche che le scelte sessuali portano in “Vicky Cristina Barcelona”. Vedi come i due ex coniugi sono veloci a passare dalla parte della propria sessualità segreta. Per Marietta questo momento di transizione non viene neanche messo in scena ma affidato alla voce narrante di Boris. Si potrebbe pensare che questa rapidità così poco sofferta appartenga alla natura della commedia, che ama le transizioni improvvise e i capovolgimenti senza mediazioni; ed è vero. Ma appartiene anche a un altro dominio, che “Whatever Works” ci illustra attraverso le interpellazioni di Boris (di cui parleremo subito): l'onnipotenza del cinema.
Poiché quel che rende di punto in bianco possibile (complice, per Woody, l'amata New York) che due bifolchi integralisti trovino con un colpo di bacchetta magica la loro via all'eros è la magia del dispositivo cinematografico. Quello stesso che convince la gente a spendere i suoi soldi per venire a vedere le chiacchiere oziose di persone che non conosce - sic dixit Boris stesso, che all'inizio del film improvvisamente annuncia agli amici che “c'è una sala piena di gente che ci guarda”, e poi si rivolge direttamente agli spettatori. Woody Allen va pazzo per gli scherzi metanarrativi. Qui Boris ha repentini attacchi della consapevolezza di essere un personaggio; però ogni volta che interpella il pubblico tutti gli altri personaggi lo guardano come se fosse matto perché parla da solo. Ovvero, mentre di solito l'interpellazione critica (mette in crisi di credibilità) l'universo diegetico, qui è l'universo diegetico che critica (mette in crisi di credibilità) l'interpellazione.
La battuta più divertente su questo piano è nel finale, quando Boris, vantandosi di essere il solo a vedere noi spettatori, si autoincensa: “Io sono l'unico ad avere una visione d'insieme - ecco quello che chiamano genio”. Deliziosa arrischiata logica! Che mentre costruisce, fragile come un castello di carte, un doppio senso di “visione d'insieme”, identifica il personaggio col racconto, l'invenzione col dispositivo, e per questa via perviene a ricordarci che il vero genio è quello del cinema stesso.

(Il Nuovo FVG)

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