lunedì 19 ottobre 2009

Baarìa

Giuseppe Tornatore

Dobbiamo ringraziare il Centro Espressioni Cinematografiche per aver potuto vedere a Udine “Baarìa” come dovrebbe essere visto dovunque, cioè parlato in dialetto siciliano coi sottotitoli. Ma pure così (non oso nemmeno immaginare come sia la versione doppiata in italiano) il film è deludente. Nella sua aspirazione alla grandeur Giuseppe Tornatore ha perso quella mano rievocativa, quell'ingegnaccio narrativo di cui aveva dato prova in “Nuovo Cinema Paradiso” (anche se compare nel presente film, dove Tornatore non si fa mancare nulla, una assai modesta ripresa di ambienti e di atmosfera di quello).
L'intenzione di “Baarìa” è di realizzare “il” grande quadro storico, politico, narrativo e poetico di Bagheria e della Sicilia, attraverso tre generazioni: il protagonista, che si pone come perno della narrazione, suo padre prima e suo figlio poi. Per questa strada dell'aspirazione al tableau Tornatore legittimamente si accosta a quella tradizione “operistica” che serpeggia sotterranea nel cinema italiano (senza sorpresa, vista la centralità dell'opera lirica nella nostra cultura): quando la tensione narrativa culmina e si rilascia in grandi momenti collettivi enfatici e la macchina da presa abbraccia un largo quadro riempito di figure dal movimento coordinato, con dilatazione del commento musicale. Questi momenti, che per così dire sublimano l'azione individuale inserendola per un momento nel tutto, riferendoci appunto all'opera lirica li possiamo chiamare corali. Tornatore si riallaccia a questa tendenza “operistica” ma ne dimentica - specie nella prima parte del film, che per ironia è la più strutturata - il principio base: la scansione per cui i momenti di esplosione corale devono costituire un culmine entro lo svolgimento. “Baarìa” è tutt'intero un momento culminante. Sembra un'“Aida” all'Arena di Verona composta per tre ore della “Marcia trionfale” con gli elefanti. “Baarìa” è il vero esempio di arte pompier.
Gonfio, retorico, gridato, questo film è tutta enfasi. Non per nulla gru e dolly sono la sua cifra stilistica: perché sono solennizzanti. Anche il montaggio vuol essere veloce, impositivo, tranchant - ma finisce per apparire isterico. I raccordi sono fortemente enunciati, si potrebbe dire pomposi; alcuni sono convincenti (esempio: i colpi dati a un bambino spingendolo contro l'albero/l'inchino degli attori dello spettacolo teatrale), altri retorici, molti sono vacui.
E' proprio quest'enfasi continua che, amalgamando tutta la tensione emotiva del film nel “fortissimo”, perviene ad annullare l'effetto enfatico di singole scene ben realizzate, come quella del bombardamento (inutile aggiungere che è un problema presente in tutto il cinema di Tornatore). Qui la questione è rovinosamente peggiorata da una score da omicidio di Ennio Morricone.
Ma c'è di peggio. Ricorre in “Baarìa”, con effetti disastrosi, una fallimentare ricerca dell'effetto poetico: onde il Kitsch è la chiave di volta dell'intero film. Si potrebbe mettere su carta un intero museo degli orrori di “Baarìa”: il bambino che correndo sembra alzarsi in volo all'inizio, la visualizzazione fantastica dei mostri di Palagonia correlata a quelli reali, la supersciocchezza a due tempi della mosca dentro la trottola, l'orrido risveglio del bambino addormentato dietro la lavagna negli anni '30 che esce e va in giro nella Bagheria d'oggi, l'annesso incrocio temporale aspirante poetico (trova nella “sua” casa in demolizione l'orecchino fatto volar via da lui adulto con una sberla alla figlioletta e dice agli operai “E' di mia figlia”), l'altra corsa in cui incrocia l'altro bambino di un diverso piano temporale... Si rimane increduli di fronte a questa ricerca sfacciata dell'effettazzo poetico: sembra di rivedere un certo cinema “artistico/pensoso” degli anni sessanta e seguenti, tipo i peggiori Taviani (“Good Morning Babilonia”).
Se almeno la prima arte, con tutta la sua stancante pomposità, riusciva a evitare la noia, nella seconda il film si perde, gira a vuoto, fa pensare a una nave senza timone. Solo l'irresolutezza può spiegare una scena solennemente stupida come quella dell'amico del protagonista che vuole morire e va a chiedere un veleno al farmacista. Alla sensazione di “stanca” contribuisce la pletora di importanti attori impiegati. Dei “Funerali di Togliatti” di Guttuso, con la sua moltiplicazione di ritratti nella folla, si disse sarcasticamente che sembrava un quadro dipinto da Alighiero Noschese. “Baarìa” trasmette a volte lo stesso effetto: vedi l'inquadratura inutilissima (alla “Che le facciamo fare?”) di Monica Bellucci che si smanazza col muratore.
Il senso profondo del progetto di Tornatore è, come s'è detto, di inserire i destini personali nel grande flusso della Storia, che lo contiene e li determina. Sul piano della Storia vi sono alcune scene riuscite: la migliore è l'evocazione abilmente indiretta della strage di Portella della Ginestra: appare il corteo comunista con le bandiere rosse a lutto e il motivo di queste è rivelato dalla mdp che scorrendo indietro rivela il titolo di un giornale. Oppure la sequenza del poliziotto e del comunista vicini di casa che escono e camminano sui due lati del marciapiede ignorandosi, ambedue salutati da mogli preoccupate perché vanno allo scontro (e tornano entrambe a casa malridotti); oppure il protagonista che enuncia per un giornalista i nomi dei morti di mafia, fra le montagne, nella pagina più sobria del film. Altre volte il riferimento storico è meno chiaro (la scena del compagno che esce dal PCI per aderire ai socialisti allude alla crisi del 1956 dopo l'invasione dell'Ungheria?). In modo piatto e frettoloso vengono evocati Guttuso e Lattuada. La descrizione dei sessantottini è la pagina più forzata e ridicola dell'intero film: è di goffaggine sub-televisiva, al livello delle peggiori miniserie che infestano i teleschermi.
Gli è che nella seconda parte “Baarìa” ha ormai deragliato. Quella vera libido di dire tutto, di realizzare il grande film-tableau... un progetto che fin dalla partenza era un po' alto per le corde di Tornatore, se posso dirlo... si è dissolto in retorica (la scena dei tre spunzoni di roccia finalmente colpiti dal sasso gettato), faciloneria, cenere.

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