sabato 24 ottobre 2009

Bastardi senza gloria

Quentin Tarantino

Credevamo di sapere che Hitler è morto nel bunker di Berlino nel 1945 - ma ci sbagliavamo. Ha incontrato la meritata fine nel '44, falciato assieme a Josef Goebbels dai mitra di due soldati americani del gruppo segreto dei Basterds, dentro un cinema in fiamme a Parigi; quell'incendio ha spazzato via tutta la nomenklatura nazista, e infatti la guerra è finita nel 1944.
Questo almeno nel mondo di Quentin Tarantino, nell'affascinante “Bastardi senza gloria” (affascinante, ma inferiore ai capolavori assoluti tarantiniani quali “Pulp Fiction” e “Kill Bill”, come cercherò di dire sotto). Com'è noto il film si ispira alla lontana a “Quel maledetto treno blindato” di Enzo G. Castellari, che in inglese è “The Inglorious Bastards” - donde il titolo “Inglourious Basterds” in tarantinese.
Prima questione: come sarebbe a dire che Hitler è morto nel '44? Potremmo allegare quella branca della letteratura fantastica, nata dalla teoria degli universi alternativi, che si chiama fantasia ucronica; oppure, probabilmente più vicina al pensiero di Tarantino, la pratica del reboot nei fumetti (quando la biografia di un personaggio, stratificatasi nelle serie, viene modificata in profondità); ma sarebbe inutile. “Basterds” si fonda sulla concezione tarantiniana di cinefilia estrema. Alla base dell'opera del regista c'è la concezione che il cinema è tutto: per Tarantino il cinema è l'unico dio, “e tu non avrai altro dio fuori che me”.
Al suo concetto cinefilo (cinefilia come passione per quel cinema ultrapopolare che fa strillare i critici come vergini palpeggiate) si lega il cosiddetto citazionismo di Tarantino, che in realtà è molto di più. Come mostra con la massima chiarezza “Kill Bill”, Tarantino lavora facendo emergere il senso dalla giustapposizione di elementi “altri”, frammenti di memoria filmica rifatti e celebrati. Fa cioè un lavoro che in arte figurativa è riconosciuto e codificato, anzi è uno dei cardini dell'arte del Novecento; mentre al cinema lo è a livello di teoria, ma non nell'applicazione.
Tutta l'avventura dei Basterds del tenente Aldo Raine (il nome è un omaggio all'attore Aldo Ray) si svolge sub specie cinematographica. Non è cioè la messa in scena di un'azione ipoteticamente reale nel pertinente universo diegetico, bensì di una serie di situazioni cinematografiche (e fumettistiche) riproposte come feticcio. Da notare la difficoltà di identificare tutti i riferimenti (che ne sia metafora il gioco delle carte col nome da indovinare che vediamo nel film?). Mentre solitamente una citazione letteraria o cinematografica è lì per essere riconosciuta, qui l'elemento citazionistico quasi diventa soggettivo: diventa un'autobiografia cinematografica di Tarantino, un proprio cine-ritratto.
I nomi-citazione (il più divertente? Il generale inglese Ed Fenech, trasparente omaggio a Edwige Fenech) sono solo la crosta esterna di questa operazione. Alla quale dà un grande apporto la musica - vedi lo splendido inizio completamente western, sia come situazione e drammaturgia (persino le battute), sia come specifica evocazione attraverso la score morriconiana. E non a caso la sequenza evoca in conclusione quell'immagine di “Sentieri selvaggi” già citata in “Kill Bill” come vera immagine generatrice.
Già sapevamo che il cinema interviene da padrone sul tempo e la morte. Quando in “Basterds” Shosanna uccide Fredrick mentre sta proiettando il film da lui interpretato, il film diegetico (il film nel film) ce lo mostra ancora vivo. Tarantino parte da questo concetto ovvio e va terribilmente più in là. Il cinema per lui può permettersi di interloquire con lo spettatore fermando la narrazione per informarci sulla natura infiammabile delle vecchie pellicole. Di condensare un antefatto nella brusca nettezza di una didascalia (la riapparizione di Shosanna a Parigi), come ai tempi del muto. Di segnalare un personaggio importante nella folla semplicemente disegnando un nome e una freccia, come qui Goering e Bormann. In altri termini Tarantino porta all'estremo - con un coraggio e una sfacciataggine non lontani da quelli dei suoi Basterds - la concezione stabilitasi nel cinema della modernità (pensiamo a Godard) in opposizione a quello classico.
E se il cinema può permettersi tutto questo, perché non potrebbe permettersi - a propria maggior gloria - di cambiare la Storia a uso del plot? Risposta: non c'è alcun motivo per cui non possa. Semplicemente, questa hybris nessuno l'aveva mai osata prima.
Non mi nascondo affatto le implicazioni di ordine filosofico e morale di tale pericolosa evoluzione (che mi sembra interessante accostare a un'altra evoluzione: la perdita del referente “profilmico” con l'avvento della computer graphics, e su un altro piano col passaggio dalla pellicola al digitale). Ma come non riconoscerne il valore spettacolare ed estetico?
“Inglourious Basterds” si articola su un triplo piano. Sul piano “ontologico” è l'esaltazione del potere generativo e distruttivo (leggi: divino) del cinema, quale entità superiore all'assoluto “già dato” della realtà. Sul piano diegetico, ciò si traduce nel racconto di un attentato nel cinema (l'incendio di una sala cinematografica) e attraverso il cinema (le pellicole di nitrato infiammabile), la vendetta di Shosanna contro i nazisti che le hanno massacrato la famiglia. Sul piano simbolico, il discorso si concretizza visivamente in un'immagine memorabile: nella metà superiore dell'inquadratura lo schermo su cui è proiettato il film-nel-film, nella metà inferiore il viluppo di pellicole infiammabili, pronto ad essere acceso; nota che queste pellicole sono una collezione di vecchi film, una cineteca privata: è il cinema che uccide il cinema. Ancor più ne è immagine-simbolo perfetta e definitiva il volto gigante di Shosanna (proiettato sullo schermo) nel cinema in fiamme; la sua risata che echeggia dagli altoparlanti di sala (“Voi state per morire tutti.... e questo è il volto della vendetta ebrea”); il suo volto gigante che, caduto lo schermo, si disegna proiettato sopra le volute di fumo che avvolgono la sala. C'è qualcosa di langhiano in questo superbo finale; e credo si possa dire che in generale Fritz Lang è uno dei numi tutelari di “Basterds” (non solo dunque il cinema di serie B).
Se tutto il film raggiungesse il livello drammatico del suo sublime finale, o dell'ammirevole inizio, non esiteremmo a segnarlo fra i capolavori assoluti di Quentin Tarantino. Ma così non è.
Intendiamoci: è un grande film, da vedere e rivedere con crescente godimento. Contiene alcune scene di tensione quasi intollerabile. Sprizza genialità nella messa in scena e nell'inventiva oltraggiosa (esempio, l'idea di mettere in scena un Hitler comico accanto a un Goebbels adeguatamente mefitico). Ritorna il folle umorismo tarantiniano - in massima parte nell'interpretazione più rilevante del film, quella di Christoph Waltz (non per nulla premiato come miglior attore a Cannes) nel ruolo del temibile colonnello SS Landa, solo personaggio degno di entrare nel pantheon delle grandi figure di Tarantino. In bocca a lui troviamo il discorso della differenza di percezione dei ratti e degli scoiattoli, che è il classico filosofeggiare di Tarantino applicato alla mentalità nazista, e uno dei pochissimi momenti in cui la vis philosophica tarantiniana fa capolino nel film.
Ma “Pulp Fiction” e “Kill Bill”, per citare solo i titoli più noti, possedevano nella loro costruzione una drammaticità profonda - che nel presente film si esprime appieno solo nel primo e nell'ultimo capitolo. Nella pur deliziosa parte mediana c'è suspense (la scena nel sotterraneo è fenomenale), c'è intelligenza, c'è grande gusto narrativo - ma non c'è questa drammaticità.
A parte la questione che Tarantino ha improvvidamente tagliato in montaggio un paio di sequenze, sarebbe probabilmente ingeneroso considerarlo un difetto: perché, semplicemente, qui a Tarantino interessa altro. Tutto il suo interesse si concentra sul potere generatore del cinema. A questo discorso Tarantino sacrifica tutto (anche il suo amato feticismo dei piedi femminili, che emerge in una sola scena - geniale, col suo pazzesco riferimento a Cenerentola). La coerente grandezza di questo estremismo di concezione ha diritto a un solo aggettivo: eroico.

1 commento:

Giacomo Q. ha detto...

come si può non amare Tarantino! Ottima recensione.