Ruben
Östlund
Nello
splendido The Square di Ruben Östlund
troviamo non tanto una satira sull'arte contemporanea quanto sulla
società contemporanea, svedese in primo luogo, ma evidentemente non
solo. Infatti il film si organizza magistralmente su due
linee. La prima è la buffa peripezia, la caduta e l'apprendimento di
una lezione, da parte di un uomo inautentico in una società
atomizzata; e questo concetto si concretizza narrativamente entro una
memorabile parodia dell'“arte” d'oggi. Che
comincia satireggiando il linguaggio della critica, nella scena
dell'intervista al protagonista, ma si allarga subito all'arte (per
comodità non metterò più le virgolette, ma il lettore se le
immagini) stessa, vuota e presuntuosa, superficiale e ipocritamente
soddisfatta di sé come nel film i suoi protagonisti e organizzatori.
Sul piano dell'ironia The Square
può far pensare a un Nanni Moretti più intellettuale o a un Woody
Allen più freddo.
Attenzione
però: solitamente la parodia presuppone una deformazione che
amplifichi alcuni tratti dell'oggetto; qui no: gli esempi di arte che
ci vengono offerti, come l'installazione fatta di mucchi regolari di
ghiaia, sono quelli che in effetti si potrebbero trovare in qualunque
museo. Quindi qui è lo sguardo stesso che è parodico.
Prova
ne sia un episodio italiano che certo il regista e sceneggiatore
Östlund non conosce ma sicuramente lo divertirebbe. Uno dei momenti
esilaranti del film si ha quando un addetto alle pulizie credendo di
fare il suo lavoro distrugge parzialmente l'installazione citata.
Ebbene, questo è effettivamente successo un paio d'anni fa in un
museo di Bolzano.
Christian (Claes Bang)
è il direttore di un museo d'arte contemporanea che ha sede nel
palazzo reale dopo un'ipotetica abolizione della monarchia in Svezia.
E' un intellettuale super-à la page, completo di occhiali
dalla montatura rossa, impegnato nel lancio di una mostra incentrata
su The Square: un quadrato di marciapiede entro il quale dovrebbe
regnare la fraternità e chi ha bisogno di aiuto lo dovrebbe trovare
(a chi sembri una stupidaggine: vide infra). La sua rovina
nasce da un abile borseggio nel quale viene alleggerito di
portafoglio e cellulare (Christian non ci pensa mai, ma il finto
incidente che serve a mascherare il borseggio è una performance
in piena regola). Di qui in poi le cose gli vanno comicamente a
rotoli sul piano personale e su quello professionale: Christian pensa
solo ai disastri suoi, mentre una mancanza di flessibilità molto
nordica e l'appartenenza a un'aristocrazia intellettuale vuota e
pomposa gli impediscono di fare i conti in modo razionale con
l'accaduto. Da un suo tentativo goffo e irresponsabile di recuperare
il maltolto ci va di mezzo un ragazzino innocente (tutt'altro, però,
che un agnellino). Una serie di conseguenze a catena mette in crisi –
da segnalare che i tempi narrativi del film sono volutamente dilatati
e sfuggenti – la sua intera struttura esistenziale.
La figura di Christian
si definisce tutta nella scena in cui prova il suo discorso di
presentazione della mostra, poi sembra che cambi idea in favore di un
discorso più informale – ma poi alla presentazione vediamo che
ambedue i momenti erano una prova. La cifra del protagonista è
l'inautenticità. Non per nulla in un paio di inquadrature
vediamo Christian immobile come in posa, come un manichino in
un'installazione. Nella mostra al museo si trova uno spazio diviso in
due direzioni opposte, “I mistrust people” e “I trust people”,
ove tutti i visitatori virtuosamente scelgono la seconda (la score
luminosa indica 3 a 42): Trust è la realtà ufficiale di
questo mondo dei buoni sentimenti... laddove tutto il comportamento
di Christian (e altrui) è in realtà, come lui ammette della
confessione finale, basato sul Mistrust. Rendendo visivamente
la sua paura quando gira per il condominio nel quale sembra abitino i
ladri, The Square sembra un horror – o un giallo nordico.
In
margine: non bisognerebbe citare sempre Bergman quando si parla di un
film svedese, ma non possiamo non ricordare le grandi figure di
inautenticità delle commedie bergmaniane... penso a Jarl Kulle in A
proposito di tutte queste... signore,
che con questo film ha dei punti di contatto.
La
sociologia americana ci aveva parlato già settant'anni fa della
lonely crowd, la folla
solitaria. La ritroviamo nel film in tutta la sua evidenza – ed è
un fenomeno paradossalmente amplificato dall'orrore contemporaneo del
politically correct.
“Vuoi salvare la vita di un uomo?”, sentiamo chiedere a tutti per
strada (pubblicità? performance? beneficenza?) e la risposta è
sempre negativa. All'inizio del film vediamo uno spostamento mal
effettuato mandare in pezzi una vecchia statua equestre - allegoria
della distruzione di un passato rispetto al quale il presente è
perfino più insincero.
In
particolare, la richiesta inascoltata di aiuto, ora comica ora
drammatica, è il filo rosso che attraversa il film. Vira all'orrore
nella scena di Christian nel suo appartamento dell'appartamento con
le grida del bambino da fuori che lo ossessionano. Tutte grida
inascoltate: The Square è la figura vacua di una falsa coscienza, la
celebrazione “orwelliana” di una grande menzogna collettiva (e
infatti verrà pubblicizzata, da due creativi che ne parlano come “il
prodotto”, col suo contrario). Nel film è molto importante la
presenza ossessiva dei mendicanti che popolano Stoccolma, con la vita
pubblica che scorre intorno a loro senza curarsene. Con una bella
soluzione di sceneggiatura, proprio su questa presenza si impernia il
video di promozione che, messo sul web, darà una svolta decisiva,
comicamente disastrosa, alla vicenda.
Lo
humour che attraversa il film (vagamente imparentato, mi pare, con
quello dell'egualmente bellissimo film svedese Un piccione
seduto sul ramo riflette sull'esistenza
di Roy Andersson) è gelido e leggermente perverso. Dalla parola
“utopico” nel discorso di Christian su The Square uno stacco ci
porta subito al segnale del suo cellulare rubato. E' uno spasso la
scena della consegna delle lettere anonime, con sproloqui sulla
giustizia al suono della musica dei Justice, con il palleggio di
pavidità fra lui e il suo vice e poi la partenza a razzo dell'auto
(scintille: “Mi sa che abbiamo urtato qualcosa”). Per non dire
della sublime scena del preservativo usato, conteso fra lui e Anne,
l'amante di una sera. O la presentazione della mostra, interrotta a
più riprese dagli insulti di un pazzoide con la sindrome di
Tourette. Ed è un assoluto capolavoro di humour nero il video per il
web che serve a pubblicizzare la mostra.
Che dire, poi, del
sesso? Il comico imbarazzo nell'incontro d'amore; la scena già
citata del preservativo; l'incontro impagabile, il giorno dopo, di
Christian con Anne (Elisabeth Moss), che disegna una parodia spietata
(ma ancora, senza deformazioni: il rapporto, potremmo dire, è 1:1)
della manipolatrice post-femminista americana che vuole arpionarlo.
Questo film è un accurato e passabilmente spietato disegno
d'ambiente. Dai due creativi alla potente dirigente con il suo cane,
si vorrebbero citare tutte queste figurette di cattiveria e felicità
visuale hogarthiana.
Le
opposizioni radicali del film (inautentico/autentico, trust/mistrust)
vi vengono replicate con una serie di gustosissimi raddoppiamenti.
Magnifico come l'inquadratura dal
basso delle trombe delle scale (ce ne sono più d'una nel film) crei
una forma quadrata che nella sua connotazione cruda e drammatica
duplica con aspro sarcasmo il Quadrato (The Square) di belle
intenzioni del film. Oppure, vedi la scimmia di Anne, che
appare due volte, la prima come buffa imitazione dell'artista
(disegna su un blocco di fogli), la seconda della donna stessa (si
mette grottescamente rossetto sul muso); ma a sua volta la vera
scimmia viene raddoppiata nella figura impressionante
dell'uomo-scimmia (l'eccezionale attore-mimo Terry Notary) in una
performance di segno opposto: non la bestia che imita l'uomo ma
l'uomo che imita la bestia, sconvolgendo gli invitati (e scatenando
un linciaggio).
Alla
fine, non tanto la resipiscenza di Christian nel suo messaggio al
cellulare, quanto le sue figlie
bambine concretizzano un'idea di innocenza (il primissimo piano
finale della più piccola) che ci si chiede quanto possa resistere in
questo mondo perverso, ma tuttavia chiude il film su una nota di
umanità.
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