L'incontro fra Ridley
Scott e Denis Villeneuve per realizzare il seguito di Blade Runner
è quasi un ossimoro – perché sono due registi agli antipodi:
Ridley Scott è un regista dell'emozione; Denis Villeneuve è un
regista filosofico e meditativo. Blade Runner 2049 nasce da
una collaborazione effettiva: Ridley Scott è produttore e dei due
sceneggiatori Hampton Fancher e Michael Green, Fancher era stato
sceneggiatore del primo Blade Runner. Eppure ne nascono due
film assai diversi. Il secondo, diciamolo subito, non perfetto come
il primo; è un misto (anche affascinante, a suo modo, in questo!) di
pregi e difetti.
Il primo terzo di Blade
Runner 2049 è il meno interessante sul piano dell'ambientazione.
Forse il pregio maggiore del primo Blade Runner era il suo
carattere di pervasività dell'esperienza. Un lavoro geniale
sulla scenografia, sulla fotografia e sul suono trasportava lo
spettatore talmente dentro la Los Angeles futura da potersi
paragonare a un trip allucinogeno. Abbiamo visto tanti nostri domani
sullo schermo, ma forse mai li abbiamo “vissuti” con egual forza.
Ritroviamo quella Los
Angeles in Blade Runner 2049, realizzata in CGI; è un
bell'affresco, come quelle dei film di Star Wars, certo; ma
non ha lo stesso impatto e appare una copia un po' scolorita, più
anonima – anche perché qui, tocca proprio dirlo, il digitale
mostra la sua inferiorità rispetto ai vecchi trucchi realizzati per
la pellicola. L'idea più innovativa è quella degli ologrammi
pubblicitari giganti, fra cui uno erotico che si china inquietante
sul protagonista. Tuttavia non si avverte in questa città la paurosa
concretezza del film di Scott.
A voler essere pedanti,
una specie di complesso d'inferiorità è già dichiarato nella prima
immagine. Blade Runner si apriva sul dettaglio di un occhio,
ma quello era un film che il motivo dell'occhio attraversava tutto;
Blade Runner 2049 si apre programmaticamente su un'immagine
analoga, solo con una grande palpebra: immagine che oltre a essere
francamente bruttina risulta inutile, perché i motivi
simbolico-visuali del film di Villeneuve sono altri.
Il racconto non scorre
sempre in modo fluido (specie se lo paragoniamo con la spietata
determinazione di Ridley Scott). La narrazione è a volte faticosa;
ci sono dei momenti di ingenuità (per esempio il modo in cui il
protagonista K imbroglia un po' troppo facilmente il suo superiore
Madame Joshi) e, francamente, di prevedibilità. Una scena di
super-action alla fine del film è piuttosto infelice. A volte
il testo appare esageratamente sentenzioso (bisogna dire che il
doppiaggio italiano non aiuta). Il cattivissimo Wallace (Jared Leto)
è una figura che addirittura danneggia il film: nel suo modo di
parlare “poetico/religioso” sfiora, o anche più, il ridicolo.
Blade Runner era
un noir – anche al di là della voce narrante presente nella prima
versione ed espunta nei due successivi director's cut.
Villeneuve, come ho già avuto modo di scrivere a proposito di
Arrival, come regista mira piuttosto a Kubrick: il regista
filosofico per eccellenza. E' l'ontologia dei replicanti che gli
interessa, più che il dramma dei personaggi dell'altro film. Non a
caso un elemento importante ma non decisivo del film di Scott, quello
dei ricordi innestati, diventa la chiave di volta dell'intero film di
Villeneuve. In Blade Runner 2049 le tematiche sono
esistenziali e interiorizzate. Che cos'è la verità? Cosa significa
avere un nome? Quali sono i sentimenti di una creatura artificiale? O
addirittura di un ologramma? Qui alludo a Joy, che emerge come la
figura più rilevante dell'intero film. Non per nulla il discorso
sulla paternità, assente in Scott, qui viene audacemente inserito
con la sorpresa che i replicanti possono procreare (il “miracolo”
annunciato nella prima sequenza).
Se
la cifra di Blade Runner
era l'affollamento, quella di Blade Runner 2049
è l'isolamento. Se Blade Runner limitava
il più possibile gli spazi aperti, Blade Runner 2049 mira
a vastità desolate. Costruzioni di importanza centrale nella trama
si ergono come cattedrali nel deserto – o vengono fotografate come
tali. Fin dall'inizio, con l'albero secco e le baracche nella “terra
desolata”, un'idea di paesaggio vasto e vuoto ritorna nel film.
E' un film di
solitudini. In Scott (coerentemente con i canoni del noir) il
protagonista era solo nella folla; in Villeneuve è solo con se
stesso. E se in Scott amava una replicante, in Villeneuve ama un
ologramma, una creatura virtuale più fragile di una farfalla,
dolorosamente legata alla macchina che la produce.
Almeno
a parere di chi scrive, Blade Runner 2049
migliora nella misura in cui si allontana dall'esigenza di dare un
sequel al plot del Blade Runner originale,
si allontana dal quadro di costrizioni del primo Blade
Runner. Ovvero, Villeneuve ha
bisogno per il suo discorso dell'universo diegetico di Blade
Runner più che della sua
diegesi da prolungare con qualche artificiosità.
In altri termini, Blade
Runner 2049 sarebbe risultato migliore (mi si perdoni quella che
per molti sarà una bestemmia) se si fosse dispensato interamente dal
prosieguo della storia di Deckard e di Rachael e avesse avuto
l'audacia di svolgersi interamente e autonomamente nel mondo dei
replicanti 2049, post-Tyrrel e post-disastro, senza voler ripescare i
personaggi del primo film. In teoria, sul piano della sceneggiatura,
ciò non sarebbe stato difficile; non voglio dire, s'intende, che
sarebbe stato produttivo sul piano commerciale.
Il tema dell'identità
interiore dei replicanti già esisteva nel film originale; non è
solo per la bellezza del testo che il grande discorso di Rutger Hauer
morente sull'alto dei tetti è diventato uno dei momenti iconici
della storia del cinema (per non dire, più terra terra, che il suo
incipit è passato in proverbio). Qui però esso assume una
centralità assoluta – e così due film diversissimi si congiungono
in un senso di humanitas che declinano in modo diverso ma è
un comune sentire.
Mi piace sottolineare
che in Blade Runner 2049 questa umanità va oltre le figure
dei replicanti per incarnarsi, come già detto, nel personaggio più
nuovo e stupefacente del film: la compagna del protagonista Joy, una
sorta di ologramma senziente che si accende e si spegne sulla
consolle, e ci si può anche portar dietro fuori di casa purché si
possegga un (costoso) “emanatore”; in una scena assai rilevante,
per poter fare l'amore con il protagonista lei si “sintonizza”
con una prostituta, in pratica sovrapponendo i loro corpi. Priva di
un corpo, Joy ha sentimenti così umani da gridare una disperata
dichiarazione d'amore nel momento in cui viene distrutta
(l'interpretazione di Ana de Armas è eccellente, e fa da
contraltare a un Ryan Gosling
alquanto inespressivo). Più ancora dei replicanti – in fin dei
conti che siano esseri umani lo sapevamo fin da subito – questa
umanità di una creatura non di carne e di sangue ci colpisce
profondamente. Vale la pena di citare, benché in modo un po'
tendenzioso, il vecchio Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me
alienum puto”. E' il pensiero e non l'involucro a determinare
la specie; e averlo sottolineato – in modo artisticamente felice,
altrimenti non varrebbe nulla – è a mio parere il maggior
risultato “filosofico” di Blade Runner 2049.
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