“Le
chiamavano sex
dolls
ma ora le chiamano love
dolls”.
E' questo che si sente dire il protagonista Tetsuo nell'originale e
sottile film giapponese Romance
Doll
(“Bambola per una storia d'amore”), quando si presenta – solo
per sbarcare il lunario – come lavorante al laboratorio che
fabbrica queste bambole: non le repellenti bambole gonfiabili ma vere
bambole di forma femminile a grandezza naturale, destinate agli
amanti di questa bizzarra forma di sessualità.
La
gente che lavora al laboratorio, per non parlare del boss, è una ben
bizzarra compagnia – e tutta la prima parte del film di Tanada Yuki
ha quella forma di commedia deadpan,
a viso impassibile, che abbiamo già visto al Festival l'anno scorso
nell'ottimo Melancholic
di Tanaka Seiji. Il film sembra toccare la commedia scollacciata
quando Tetsuo e il suo collega, per ottenere un calco realistico del
seno, hanno bisogno di una modella umana e si rivolgono a una ragazza
che è convinta che la sua forma servirà per protesi mediche – e
poi non osano dirglielo, cosa tanto più complicata in quanto Tetsuo
la sposa. Ma in seguito il film compie con scioltezza uno spostamento
dalla commedia deadpan
a quella serietà che arriva col passaggio in un quasi-genere del
cinema orientale che è il melodramma sulla malattia fatale.
E'
una storia di amore e morte, certo; ma è soprattutto una riflessione
poetica sul rapporto fra la bambola e il corpo: fra la donna reale e
la bambola fatta a sua somiglianza. E qui noi occidentali non
possiamo non pensare al mito di Pigmalione (ma si riconosce una
traccia anche de Il
ritratto ovale
di Edgar Allan Poe). Dove si vede che anche una sex
doll
può diventare monumento a un essere umano molto amato.
Questo discorso
impegnativo il film (che la regista Tanada Yuki ha sceneggiato da un
proprio romanzo) lo concretizza in modo delicato e sentito, fino a
concludersi in un commovente monologo con sguardo sul mare un po'
alla Kitano. Anche avvalorandosi di una coppia di ottimi interpreti,
Takahashi Issey che è Tetsuo e Aoi Yu che è sua moglie Sonoko. E
qui bisogna annotare che, per quanto sia espressivo Takahashi, ad
Aoi Yu basta un'espressione muta o un semplice breve movimento per
rispondergli con un'intensità che stringe il cuore.
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