Far
East Film Festival 2024: segue qualche nota su tre film filippini,
due indonesiani, uno thailandese e uno (poco convincente) malaysiano.
Becky
and Badette
L’intelligente
commedia un po’ almodovariana Becky and Badette, firmata dal bravo
Jun Robles Lana (Bwakaw, Barber’s Tales, Die Beautiful), deve molto
alle sue due eccellenti interpreti: Eugene Domingo, già nota al
pubblico del festival come ottima attrice tanto nei ruoli comici
quanto in quelli drammatici, e la comica Pokwang, una scoperta per
noi. Becky e Badette, amiche fin dalle elementari, da adulte vivono
insieme e sono due losers, l’una musicista fallita, l’altra
aspirante attrice fallita. Una ex compagna perfida le invita alla
rimpatriata del liceo solo per farsi beffe di loro (dice anche che
tutti devono presentarsi col costume più sgargiante possibile mentre
non è vero). Tenute in disparte da tutti, le due si ubriacano e,
soltanto per scandalizzare, vanno al microfono e si inventano di
essere una coppia lesbica. Il giorno dopo, passata la sbronza,
scoprono che la loro scenata, filmata, è diventata virale, e che
sono diventate eroine del mondo queer (bellissima la gag relativa
alle loro mamme). La carriera di entrambi decolla e raggiunge livelli
stratosferici. Nel film compaiono diverse figure dello spettacolo
filippino nel ruolo di se stesse, come la regista Sigrid Bernardo o
il cantante Ice Segundo. Ma la finzione comincia a pesare, e
l’eterosessualità a esigere buffamente i suoi diritti, quando si
rifà vivo il bellone di cui erano innamorate entrambe al liceo.
Piccola
nota spoilerante (attenzione!): lo scrivo per mostrare un tratto
intelligente della sceneggiatura. Una situazione simile, nove film
sui dieci l’avrebbero risolta inventando che le due si innamorano
davvero, così la finzione diventa realtà e si salva tutto
l’impianto. Qui invece restano etero, anche se c’è una scena
ambigua che suggerisce vagamente un possibile sviluppo in quel senso
(ma riguarda una sola delle due). La conclusione infatti è
agrodolce: allegra ma non trionfale.
Rookie
Di
solito il cinema sportivo ha un impianto prevedibile
(difficoltà-crescita-vittoria), e il piacevole film di Samantha Lee
non fa eccezione per quanto riguarda l’aspetto dello sport (il
volleyball o pallavolo), che gli dà la struttura narrativa. La rookie Ace, appassionata di basket, arriva per trasferimento
in una scuola superiore dove il basket non si gioca; la coach vede le
sue capacità e insiste per inserirla nella squadra di volleyball.
Ace è dapprima presa di mira dalla campionessa della scuola, Jana.
Poi diventano amiche intime – e insieme affrontano il campionato
regionale nella classica partita sul filo del rasoio, all’ultimo
punto. Ma su questa struttura tutt’altro che nuova – però ben
narrata – il film innesta altre due tematiche, che lo variano: un
vice-coach molestatore e, soprattutto, l’omosessualità di Ace, che
diventa un punto centrale del film senza diventare un tormentone
didattico e lamentoso come spesso accade.
Il
film è raccontato in modo assai pulito, nel senso di netto, fluido,
senza sbavature, in una parola molto professionale, che dà forza
alle atmosfere e che crea un'autentica adesione ai personaggi. Un
punto di forza è l’eccellente recitazione delle due ragazze, la
già nota Aya Fernandez nel ruolo di Jana e l’esordiente Pat
Tingjuy in quello di Ace. La chimica fra i due caratteri, volitiva la
prima, chiusa la seconda, è molto ben rappresentata – e le attrici
sembrano davvero due adolescenti.
When
This Is All Over
Questo
film di Kevin Mayuga è una variazione sul tema del lockdown
al tempo del Covid, che la fa da protagonista, e su come i poveri e i
ricchi lo passavano diversamente (senza sorpresa, ai ricchi andava
meglio). Durante il lockdown un giovane (chiamato solo The Guy) vive
in un albergo di lusso, mantenuto dalla madre ricca che è a New
York. Fa il piccolo spacciatore; il suo fornitore sta nello stesso
albergo. Sogna di ottenere un visto per l'America; per questo si
immischia con un quartetto di giovani stronzi ricchi, figli di gente
potente, e li aiuta a organizzare una festa illegale (a causa delle
restrizioni) sulla terrazza dell’albergo. Una giovane cameriera sua
amica, Rosemarie, viene licenziata per colpa sua. Lui, espulso
dall’albergo, scopre che i ricchi sono cattivi e ha una brutta
sorpresa sulla madre. Complice un trip allucinogeno, ha una presa di
coscienza che gli fa capire eccetera eccetera, come nel vecchio
cinema italiano.
Questo
film non eccelso ma scorrevole, è una dramedy, più drama che comedy, o forse meglio, è un drama (con un tocco buffo nel
personaggio del fornitore) che d'improvviso sbocca in un momento di
comedy alquanto incongruo, la scena in cui tutto il personale
dell’albergo sviene per dei biscotti drogati.
Oltre
all’ambientazione inusuale, il pregio del film è una certa
sveltezza, che porta a un paio di scene riuscite. Non dico la
sequenza del trip, che è di grande ingenuità (il contenuto è
telegrafato e la messa in scena grossolana, con grande uso di
cellofan sui volti durante l’allucinazione). Un problema è, non
tanto che il protagonista è uno sfigato, ma che l’interprete (Juan
Karlos) è privo di carisma. Molto meglio Jorrybell Agoto, che
interpreta Rosemarie.
Train
of Death
Il
regista indonesiano Rizal Mantovani è uno specialista dell’horror,
autore dei tre film della trilogia Kuntilanak e di Kerusupan: come
mostra almeno quest’ultimo, è un cineasta influenzato da Sam
Raimi. Train of Death è un horror senza infingimenti, sul disastroso
viaggio inaugurale del treno eponimo Di questa film non si può dire,
come qualcuno ha fatto, che sia un Train to Busan indonesiano (a
parte l’ovvio fatto che svolgersi su un treno comporta una
dimensione spaziale obbligata), ma certamente vi si vede l'influsso
di Raimi, in certe soggettive “spettrali”, nella concezione degli
spiriti e, fortemente, nel finale (che non vado a spoilerare, perché è passabilmente sorprendente).
Mentre
in Train to Busan, infatti, la dimensione del male è orizzontale,
umani vs. umani mutati in zombi, in Train of Death è verticale:
umani contro démoni; ove dire “contro” non è nemmeno esatto
perché non c’è alcun mezzo di difesa: i passeggeri del treno sono
come pesci in una vasca di allevamento. Il concetto è che il viaggio
inaugurale di un treno attraversa una foresta abitata dai démoni
dove i soliti corrotti (che viaggiano sul treno nel vagone di testa)
hanno abbattuto molti alberi per far passare la linea ferroviaria. La
vendetta degli spiriti farebbe contento qualunque ecologista.
Il
treno comprende cinque vagoni e ad ogni galleria un vagone,
semplicemente, svanisce, attaccato dai démoni che massacrano i
passeggeri. Questo crea per gli altri viaggiatori una sorta di macabro conto
alla rovescia, che si concluderà nella cabina motrice. Il film mette
in scena – in modo un po’ ovvio ma avvincente – tutta la
consueta galleria di ritratti: i corrotti che prima nascondono i
problemi e poi negano l'evidenza, i ricchi della classe VIP con la
puzza sotto il naso, i poveri che sono i primi ad accorgersi del
disastro soprannaturale, il personale di bordo diviso fra gli ordini
del capotreno e la paura.
13
Bombs
Siamo
a Giacarta, dove un’organizzazione terrorista avverte il gruppo
antiterrorismo collocato 13 bombe che scoppieranno fra un certo
lasso di tempo. Si crea la classica corsa contro il tempo, ed è
particolarmente notevole, per un paese musulmano, che l'eroina sia
una donna, la poliziotta Karin (Putri Adyudya), che domina con uno
sguardo veramente d’acciaio il suo collega-oppositore maschilista e
nascostamente invidioso. Fa parte della suspense del racconto la ricerca di una
possibile talpa nelle file dell’antiterrorismo stesso.
Sul
piano della messa in scena del disastro, dall’attacco iniziale a un
furgone blindato all’esplosione di un treno e così via, il film
non ha nulla da invidiare a cinematografie più paludate nella
categoria action. Tuttavia il regista Angga Swimas Sasongko non si
limita all’azione (stile Moscow Mission di Yau) ma trasforma
il film in un dramma a sfondo politico, dove il risentimento dei
terroristi si nutre tragicamente di un sentimento di odio e vendetta
per la povertà e la corruzione che li hanno rovinati. Così,
sebbene con qualche lungaggini nella parte finale (peraltro assai ben
messa in scena, come il resto) il film crea qualcosa di molto vicino
a un'ambivalenza morale. Il terrorismo spietato di questa
organizzazione è orribile ma la tragedia personale del suo capo –
che naturalmente apprendiamo tardi nel film – non si può dire che
non lasci dentro un segno.
Death
Whisperer
Il
thailandese Death Whisperer di Taweewat Wantha è tratto dal romanzo
Tee Yod di Krittanon Chaimin, come cerca di spiegare in pessimo
inglese una didascalia iniziale. Spesso il pubblico del FEFF guarda un po’ dall’alto in basso gli horror thailandesi,
ma a torto, e questo è senz’altro bello. Parla di una famiglia
thailandese-cinese che viene perseguitata da uno spirito maligno
potentissimo, che vuole possedere la sorella di mezzo, di nome Yam.
Dato
il pessimo gusto della scelta dei nomi, che fa impallidire Qui Quo
Qua, come aiuto al ricordo della visione mi sembra utile fornire –
in ordine decrescente di età – i nomi dei sei figli della sorella
perseguitata: i maschi sono Yak (un ex soldato), Yos e Yod; le
femmine sono Yad, Yam e Yee (una bambina). I protagonisti sono il
figlio e la figlia maggiori. Gli altri componenti della famiglia sono
il padre (un imbecille autoritario) e la madre.
Anche
se il film non rifugge da scene sanguinose (e pozioni ripugnanti
tipiche della magia thailandese), la descrizione della possessione di
Yam viene resa bene senza bisogno di effetti stile L’esorcista per
impressionare: bastano occhi sbarrati che sembrano più grandi del
normale, col bianco che passa a una strana tinta azzurrina, e
naturalmente una buona recitazione.
Con
una musica thrilling efficace ma troppo presente, il film descrive
molto bene la progressiva disintegrazione della tranquillità
familiare, anche mettendo in evidenza le tensioni latenti dentro
questa famiglia (lo stupido padre, il fratello di mezzo ostile al
primo). Per quanto riguarda il contenuto horror, ammetto che alcuni
jump scares mi hanno fatto saltare sulla sedia; il racconto è
adeguatamente pauroso nel suo svolgersi e l’elemento macabro non si
pone freni – fino a sfociare in un pre-finale di puro delirio.
Reversi
Nel
film malaysiano Reversi di Adrain Teh, Akid
ha la capacità, un
dono
di famiglia, di tornare indietro nel tempo (però
si avvicina
alla morte, nel presente, di tanto tempo quanto ne trascorre nel
passato): ma le misteriose regole spiegategli
da suo padre impediscono sia di usare questa dote per arricchirsi
sia, peggio, per cambiare il passato salvando la vita ai propri cari.
È
un po’ come in Final Destination: chi è predestinato deve morire
comunque. Un
elemento culturale interessante è vedere questo concetto dello
sforzo di cambiare il destino alla
luce della cultura islamica, basata su un monoteismo assoluto (il concetto delle leggi naturali come “abitudini di Dio”), che è deterministica e
fatalista – infatti a
un certo punto sentiamo la tipica espressione musulmana “Era
scritto”.
L’idea
del
film non è priva
di attrattive
ma la sua realizzazione è
faticosa. Avverto
subito
che gioca più sull’aspetto mélo che su quella suspense.
L’impressione è di un film ambizioso ma
modesto,
con una prima parte discutibile, con
due figure sedute che chiacchierano interminabilmente rimandando a
flashbacks vari
mentre
Akid racconta all’altro le sue vicissitudini, e
una seconda parte che va per la tangente per
la macchinosità di concezione.
Nessun commento:
Posta un commento