venerdì 21 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Filippine Indonesia Thailandia Malaysia


Far East Film Festival 2024: segue qualche nota su tre film filippini, due indonesiani, uno thailandese e uno (poco convincente) malaysiano.

Becky and Badette

L’intelligente commedia un po’ almodovariana Becky and Badette, firmata dal bravo Jun Robles Lana (Bwakaw, Barber’s Tales, Die Beautiful), deve molto alle sue due eccellenti interpreti: Eugene Domingo, già nota al pubblico del festival come ottima attrice tanto nei ruoli comici quanto in quelli drammatici, e la comica Pokwang, una scoperta per noi. Becky e Badette, amiche fin dalle elementari, da adulte vivono insieme e sono due losers, l’una musicista fallita, l’altra aspirante attrice fallita. Una ex compagna perfida le invita alla rimpatriata del liceo solo per farsi beffe di loro (dice anche che tutti devono presentarsi col costume più sgargiante possibile mentre non è vero). Tenute in disparte da tutti, le due si ubriacano e, soltanto per scandalizzare, vanno al microfono e si inventano di essere una coppia lesbica. Il giorno dopo, passata la sbronza, scoprono che la loro scenata, filmata, è diventata virale, e che sono diventate eroine del mondo queer (bellissima la gag relativa alle loro mamme). La carriera di entrambi decolla e raggiunge livelli stratosferici. Nel film compaiono diverse figure dello spettacolo filippino nel ruolo di se stesse, come la regista Sigrid Bernardo o il cantante Ice Segundo. Ma la finzione comincia a pesare, e l’eterosessualità a esigere buffamente i suoi diritti, quando si rifà vivo il bellone di cui erano innamorate entrambe al liceo.
Piccola nota spoilerante (attenzione!): lo scrivo per mostrare un tratto intelligente della sceneggiatura. Una situazione simile, nove film sui dieci l’avrebbero risolta inventando che le due si innamorano davvero, così la finzione diventa realtà e si salva tutto l’impianto. Qui invece restano etero, anche se c’è una scena ambigua che suggerisce vagamente un possibile sviluppo in quel senso (ma riguarda una sola delle due). La conclusione infatti è agrodolce: allegra ma non trionfale.


Rookie

Di solito il cinema sportivo ha un impianto prevedibile (difficoltà-crescita-vittoria), e il piacevole film di Samantha Lee non fa eccezione per quanto riguarda l’aspetto dello sport (il volleyball o pallavolo), che gli dà la struttura narrativa. La rookie Ace, appassionata di basket, arriva per trasferimento in una scuola superiore dove il basket non si gioca; la coach vede le sue capacità e insiste per inserirla nella squadra di volleyball. Ace è dapprima presa di mira dalla campionessa della scuola, Jana. Poi diventano amiche intime – e insieme affrontano il campionato regionale nella classica partita sul filo del rasoio, all’ultimo punto. Ma su questa struttura tutt’altro che nuova – però ben narrata – il film innesta altre due tematiche, che lo variano: un vice-coach molestatore e, soprattutto, l’omosessualità di Ace, che diventa un punto centrale del film senza diventare un tormentone didattico e lamentoso come spesso accade.
Il film è raccontato in modo assai pulito, nel senso di netto, fluido, senza sbavature, in una parola molto professionale, che dà forza alle atmosfere e che crea un'autentica adesione ai personaggi. Un punto di forza è l’eccellente recitazione delle due ragazze, la già nota Aya Fernandez nel ruolo di Jana e l’esordiente Pat Tingjuy in quello di Ace. La chimica fra i due caratteri, volitiva la prima, chiusa la seconda, è molto ben rappresentata – e le attrici sembrano davvero due adolescenti.

When This Is All Over

Questo film di Kevin Mayuga è una variazione sul tema del lockdown al tempo del Covid, che la fa da protagonista, e su come i poveri e i ricchi lo passavano diversamente (senza sorpresa, ai ricchi andava meglio). Durante il lockdown un giovane (chiamato solo The Guy) vive in un albergo di lusso, mantenuto dalla madre ricca che è a New York. Fa il piccolo spacciatore; il suo fornitore sta nello stesso albergo. Sogna di ottenere un visto per l'America; per questo si immischia con un quartetto di giovani stronzi ricchi, figli di gente potente, e li aiuta a organizzare una festa illegale (a causa delle restrizioni) sulla terrazza dell’albergo. Una giovane cameriera sua amica, Rosemarie, viene licenziata per colpa sua. Lui, espulso dall’albergo, scopre che i ricchi sono cattivi e ha una brutta sorpresa sulla madre. Complice un trip allucinogeno, ha una presa di coscienza che gli fa capire eccetera eccetera, come nel vecchio cinema italiano.
Questo film non eccelso ma scorrevole, è una dramedy, più drama che comedy, o forse meglio, è un drama (con un tocco buffo nel personaggio del fornitore) che d'improvviso sbocca in un momento di comedy alquanto incongruo, la scena in cui tutto il personale dell’albergo sviene per dei biscotti drogati.
Oltre all’ambientazione inusuale, il pregio del film è una certa sveltezza, che porta a un paio di scene riuscite. Non dico la sequenza del trip, che è di grande ingenuità (il contenuto è telegrafato e la messa in scena grossolana, con grande uso di cellofan sui volti durante l’allucinazione). Un problema è, non tanto che il protagonista è uno sfigato, ma che l’interprete (Juan Karlos) è privo di carisma. Molto meglio Jorrybell Agoto, che interpreta Rosemarie.

Train of Death

Il regista indonesiano Rizal Mantovani è uno specialista dell’horror, autore dei tre film della trilogia Kuntilanak e di Kerusupan: come mostra almeno quest’ultimo, è un cineasta influenzato da Sam Raimi. Train of Death è un horror senza infingimenti, sul disastroso viaggio inaugurale del treno eponimo Di questa film non si può dire, come qualcuno ha fatto, che sia un Train to Busan indonesiano (a parte l’ovvio fatto che svolgersi su un treno comporta una dimensione spaziale obbligata), ma certamente vi si vede l'influsso di Raimi, in certe soggettive “spettrali”, nella concezione degli spiriti e, fortemente, nel finale (che non vado a spoilerare, perché è passabilmente sorprendente).
Mentre in Train to Busan, infatti, la dimensione del male è orizzontale, umani vs. umani mutati in zombi, in Train of Death è verticale: umani contro démoni; ove dire “contro” non è nemmeno esatto perché non c’è alcun mezzo di difesa: i passeggeri del treno sono come pesci in una vasca di allevamento. Il concetto è che il viaggio inaugurale di un treno attraversa una foresta abitata dai démoni dove i soliti corrotti (che viaggiano sul treno nel vagone di testa) hanno abbattuto molti alberi per far passare la linea ferroviaria. La vendetta degli spiriti farebbe contento qualunque ecologista.
Il treno comprende cinque vagoni e ad ogni galleria un vagone, semplicemente, svanisce, attaccato dai démoni che massacrano i passeggeri. Questo crea per gli altri viaggiatori una sorta di macabro conto alla rovescia, che si concluderà nella cabina motrice. Il film mette in scena – in modo un po’ ovvio ma avvincente – tutta la consueta galleria di ritratti: i corrotti che prima nascondono i problemi e poi negano l'evidenza, i ricchi della classe VIP con la puzza sotto il naso, i poveri che sono i primi ad accorgersi del disastro soprannaturale, il personale di bordo diviso fra gli ordini del capotreno e la paura.

13 Bombs

Siamo a Giacarta, dove un’organizzazione terrorista avverte il gruppo antiterrorismo collocato 13 bombe che scoppieranno fra un certo lasso di tempo. Si crea la classica corsa contro il tempo, ed è particolarmente notevole, per un paese musulmano, che l'eroina sia una donna, la poliziotta Karin (Putri Adyudya), che domina con uno sguardo veramente d’acciaio il suo collega-oppositore maschilista e nascostamente invidioso. Fa parte della suspense del racconto la ricerca di una possibile talpa nelle file dell’antiterrorismo stesso.
Sul piano della messa in scena del disastro, dall’attacco iniziale a un furgone blindato all’esplosione di un treno e così via, il film non ha nulla da invidiare a cinematografie più paludate nella categoria action. Tuttavia il regista Angga Swimas Sasongko non si limita all’azione (stile Moscow Mission di Yau) ma trasforma il film in un dramma a sfondo politico, dove il risentimento dei terroristi si nutre tragicamente di un sentimento di odio e vendetta per la povertà e la corruzione che li hanno rovinati. Così, sebbene con qualche lungaggini nella parte finale (peraltro assai ben messa in scena, come il resto) il film crea qualcosa di molto vicino a un'ambivalenza morale. Il terrorismo spietato di questa organizzazione è orribile ma la tragedia personale del suo capo – che naturalmente apprendiamo tardi nel film – non si può dire che non lasci dentro un segno.

Death Whisperer

Il thailandese Death Whisperer di Taweewat Wantha è tratto dal romanzo Tee Yod di Krittanon Chaimin, come cerca di spiegare in pessimo inglese una didascalia iniziale. Spesso il pubblico del FEFF guarda un po’ dall’alto in basso gli horror thailandesi, ma a torto, e questo è senz’altro bello. Parla di una famiglia thailandese-cinese che viene perseguitata da uno spirito maligno potentissimo, che vuole possedere la sorella di mezzo, di nome Yam.
Dato il pessimo gusto della scelta dei nomi, che fa impallidire Qui Quo Qua, come aiuto al ricordo della visione mi sembra utile fornire – in ordine decrescente di età – i nomi dei sei figli della sorella perseguitata: i maschi sono Yak (un ex soldato), Yos e Yod; le femmine sono Yad, Yam e Yee (una bambina). I protagonisti sono il figlio e la figlia maggiori. Gli altri componenti della famiglia sono il padre (un imbecille autoritario) e la madre.
Anche se il film non rifugge da scene sanguinose (e pozioni ripugnanti tipiche della magia thailandese), la descrizione della possessione di Yam viene resa bene senza bisogno di effetti stile L’esorcista per impressionare: bastano occhi sbarrati che sembrano più grandi del normale, col bianco che passa a una strana tinta azzurrina, e naturalmente una buona recitazione.
Con una musica thrilling efficace ma troppo presente, il film descrive molto bene la progressiva disintegrazione della tranquillità familiare, anche mettendo in evidenza le tensioni latenti dentro questa famiglia (lo stupido padre, il fratello di mezzo ostile al primo). Per quanto riguarda il contenuto horror, ammetto che alcuni jump scares mi hanno fatto saltare sulla sedia; il racconto è adeguatamente pauroso nel suo svolgersi e l’elemento macabro non si pone freni – fino a sfociare in un pre-finale di puro delirio.


Reversi


Nel film malaysiano Reversi di Adrain Teh, Akid ha la capacità, un dono di famiglia, di tornare indietro nel tempo (però si avvicina alla morte, nel presente, di tanto tempo quanto ne trascorre nel passato): ma le misteriose regole spiegategli da suo padre impediscono sia di usare questa dote per arricchirsi sia, peggio, per cambiare il passato salvando la vita ai propri cari. È un po’ come in Final Destination: chi è predestinato deve morire comunque. Un elemento culturale interessante è vedere questo concetto dello sforzo di cambiare il destino alla luce della cultura islamica, basata su un monoteismo assoluto (il concetto delle leggi naturali come “abitudini di Dio”),  che è deterministica e fatalista – infatti a un certo punto sentiamo la tipica espressione musulmana “Era scritto”.
L’idea del film non è priva di attrattive ma la sua realizzazione è faticosa. Avverto subito che gioca più sull’aspetto mélo che su quella suspense. L’impressione è di un film ambizioso ma modesto, con una prima parte discutibile, con due figure sedute che chiacchierano interminabilmente rimandando a flashbacks vari mentre Akid racconta all’altro le sue vicissitudini, e una seconda parte che va per la tangente per la macchinosità di concezione.

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