La
Corea ha fatto la parte del leone nel lato “storico” del FEFF
2024, che è sempre più importante, con la stupenda retrospettiva
50/50: Celebrating 50 years of Korean film preservation (e non
dimentichiamo il piccolo omaggio a Lee Myung-se). Ma ecco qualche
nota su alcuni film coreani in concorso.
Citizen
of a Kind
Citizen
of a Kind della regista Park Young-ju è la drammatizzazione di una
storia vera del 2016. Deok-hee è una donna qualunque di aspetto
ordinario che, dopo aver perso la sua piccola lavanderia in un
incendio, è stata vittima di voice phishing (truffa al telefono, spacciandosi per la sua banca) e ora è rovinata. La voce era del
giovane Jae-min, costretto a farlo da un’organizzazione criminale
(coreana) che lo tiene prigioniero a Qingdan in Cina con altri,
picchiandoli e minacciando le loro famiglie. Come atto di ribellione,
lui riesce a far pervenire alcuni messaggi alla disperata Deok-hee.
Siccome la polizia coreana non la prende sul serio, la donna va di
persona a Qingdan alla ricerca del covo della gang, insieme a tre
amiche che forniscono il comic relief in una gustosa recitazione a
quattro.
Da
notare lo sguardo scettico sulla polizia, impacciatissima in
contrapposizione all'organizzazione e alla gelida crudeltà del big
boss della banda – circa la quale c’è una scena molto violenta
nel finale. I poliziotti coreani sono benintenzionati e stupidi;
quelli cinesi sono incapaci e arroganti. Sviluppandosi sulle linee
narrative parallele dei due personaggi principali, il film elabora
con successo una storia thriller su Jae-min (divenuto in pratica un
undercover nel covo) ed una di tensione investigativa con tocchi di
commedia su Deok-hee. La cosa importante è che riesce a “cucire”
molto bene queste due linee che sulla carta rischiavano di andare
ciascuna per la sua strada. L’interpretazione umanissima di Ra
Mi-ran, come vittima attiva anziché piagnona, contribuisce a
renderlo appassionante.
Exhuma
Com’è
ovvio, nel campo dell’horror asiatico un film di ispirazione
occidentale può essere comunque piacevole (penso ai bei film di
vampiri para-hammeriani di Yamamoto Michio degli anni ‘70), ma
quelli che attingono al patrimonio delle credenze e superstizioni
orientali hanno in partenza qualcosa in più, perché ci introducono
in un mondo meno conosciuto: una specie di esotismo dell’orrore.
Di
solito questo tuffo nell’orrore locale si ha attraverso la figura
del mostro (i film sulla krasue, sulla pontianak, sugli aswang e via
dicendo), ma Exhuma di Jang Jae-hyun si situa un passo più in là,
perché mette al centro i riti sciamanici, le superstizioni mortuarie
e la stessa visione del mondo orientale, ovvero la teoria dei cinque
elementi (proprio su di essa è costruito il finale).
Lee
Hwa-rim (Kim Go-eun) è una sciamana ed è amica dell’esperto di
feng shui relativo alle tombe Kim Sang-duk (il grande Choi Min-sik) -
i cui interventi assieme all'operatore di pompe funebri Ko (Yoo
Hai-jin) si muovono nella zona ambigua fra la serietà e l’imbroglio.
I tre sono specialisti nel riesumare i morti per spostarli da
sepolture “mal collocate”. Ma quando capitano davanti a un’antica
tomba solitaria fra le montagne – la scena del rito celebrato dalla
sciamana davanti alla tomba vale da sola il prezzo del biglietto –
avranno modo di pentirsene.
Il
regista Jang Jae-hyun è una vecchia conoscenza del FEFF (The Priests,
Svaha). Mostra sempre una sorta di energia selvaggia che anche in
Exhuma è molto efficace: non solo per la sua costruzione di fantasmi
a scatole cinesi ma per la sensazione di minaccia che congegna e
mantiene per tutto il film. L’uso del buio e la scelta di mostrare
poco il mostro, fino alla deflagrazione del finale, rinforza
quest'atmosfera.
Alienoid
– Alienoid: Return to the Future
Questa
coppia di ambiziosi film di fantascienza, il cui successo è stato
limitato dal Covid, è certamente spettacolare ed eccessiva al
massimo, sebbene non trascini sempre “dentro” lo spettatore come
vorrebbe. Il motivo non riguarda le singole sequenze, spesso
eccellenti, ma l’impostazione narrativa: il film è basato
sull’accumulo; sviluppi e personaggi sono introdotti in modo un po’
meccanico; è una sorta di “montaggio delle attrazioni” allo
stato bruto che denuncia la scuola dei film Marvel (però c’è
dentro anche qualcosa di Matrix) – sebbene con qualche tocco di
crudeltà molto coreana.
Impossibile
descrivere il plot perché c’è di tutto, dagli alieni buoni e
cattivi, uno dei quali è un’automobile senziente, al disaster
movie fantascientifico, ai viaggi nel tempo, che permettono di
introdurre il fantasy in costume e le arti marziali. Un aspetto
positivo è un certo sense of humour nelle figure di contorno (i due
uomini-gatto e i due “Sorcerers of Twin Peaks”). Dopo che il
primo film si interrompe su un cliffhanger, arriva il secondo
episodio, o meglio la seconda metà, dove i fili della storia si
ricongiungono ma sempre con quella proliferazione un po’ confusa e
frenetica. Nuovamente il racconto si articola su due piani temporali,
la Corea d’oggi e quella del 1380. Nella parte contemporanea ho
trovato piuttosto insensato che in due film girati back to back il
secondo film riprenda direttamente dal primo la sequenza
dell’esplosione della capsula di atmosfera aliena (solo,
aggiungendo in montaggio un personaggio femminile che osserva).
Questo aspetto un po’ disappointing aumenta la sensazione di
spaccatura già esistente fra la parte in costume, che è la
migliore, e quella contemporanea. Fra l’altro, nella parte in
costume c’è tutto l’elemento di humour del film. Le due tracce
narrative si annodano alla fine, quando gli eroi del XIV secolo e
quelli del XXI si uniscono assieme a combattere contro un mostro in
CGI non nuovissimo come concezione. Ma almeno è una sequenza
passabilmente indiavolata.
12.12:
The Day
In
Italia non fa pensare a niente ma per i coreani il 12 dicembre è una
di quelle date dal significato immediato come per gli italiani il 25
aprile o l’8 settembre. Il 12 dicembre 1979, poco dopo il famoso
assassinio del presidente-dittatore Park Chun-hee, il generale Chun
organizzò un colpo di stato in Corea. A opporsi fu il generale Jang
Tae-wan (nel film, Lee Tae-shin), comandante della guarnigione di
Seoul, ma perse. Sia Chun sia il suo amico e complice generale Roh
sarebbero poi diventati presidenti della Corea.
L’immondo
Malaparte scrisse nel 1931 un libro intitolato Tecnica del colpo di stato. Potrebbe essere il titolo di questo film di Kim
Sung-su, che illustra con buona capacità narrativa ed eccellente
tecnica della suspense il prepararsi del golpe (eseguito da una
specie di P2 militare diretta da Chun), il suo svolgimento, favorito
dall’intrico burocratico e dalla vigliaccheria della classe
dirigente politico-militare coreana, e infine il suo trionfo. Il
golpe minuto per minuto: non è una storia piacevole da contemplare –
come sempre nella vita, i cattivi non si pongono regole mentre i
buoni sono troppo buoni – ma questa è la storia accaduta. Senza
sorpresa, è stato un grosso successo in Corea.
The
Roundup: Punishment
I
criminali, più sono cattivi più si sentono liberi di far male; la
polizia è imbrigliata da leggi e regolamenti, e
in
fondo è
giusto
così (guai se
no).
Sull’innegabile
frustrazione creata da questo stato di cose, mettono
un
cerotto psicologico
per lo spettatore i
cazzotti potentissimi di Don Lee, alias
Ma Dong-seok.
Dopo
il suo
successo
personale
in
Train to Busan,
quest’attore
coreano
è
diventato un’icona cinematografica, in particolare con la serie
Roundup,
di
cui The Roundup: Punishment è
il
quarto
capitolo.
L’eroe
è Ma Seok-do (la somiglianza del nome con quello coreano dell'attore
lo rende un marchio di fabbrica), poliziotto burbero e corpulento,
dai pugni come mazzate e di poca pazienza con criminali e teppisti –
come
vediamo qui quando ne incontra un gruppo che sta devastando un
ristorantino.
Il
regista esordiente Heo Myeong-haeng ha alle spalle una carriera come stunt coordinator: non per nulla le scene di combattimento sono
molto buone. In questo film semplice e veloce, il detective Ma riduce
in pezzetti un'organizzazione illegale di gioco d’azzardo online.
Ma nella vita, e ancor meno nei film polizieschi coreani, non
esistono trionfi facili, e anche il colossale Ma dovrà prenderne
quasi quante ne dà.
Altri
film
Il
piacevole Ransomed di Kim Seong-hun è vagamente ispirato a una
storia vera. Il rapimento di un diplomatico coreano in Libano (per la
gang dei rapitori, il regista ha fatto incetta delle facce più
patibolari che si possano trovare in tutto l’Oriente!) viene
risolto dall’alleanza fra un “pesce piccolo” della diplomazia
scaraventato in loco e un tassista coreano espatriato,
amico-nemico-amico, nel più classico buddy movie. Se la plausibilità
è traballante (non che importi molto!), l'atmosfera è garantita, e
questo Libano odioso e ostile – come nella scena notturna nel
villaggio – non ce lo dimenticheremo.
Smugglers
è un piacevole film di avventure, ispirato alla tradizione di quelle
che in giapponese si chiamano ama (pescatrici subacquee) incrociata
con una storia di contrabbando e di tradimenti, con una resa dei
conti a distanza di anni. Si lascia vedere, ma certo è un’opera
minore nell’importante panorama del cinema di Ryoo Seung-wan. Da
notare la presenza della grande Kim Hye-soo, indimenticata ospite a
Udine anni fa.
Infine,
lasciamo perdere l’inutile e
irritante thriller The Guest
di Yeon Je-gwang. La
prima mezzora potrebbe essere
imbottigliata e venduta come rimedio contro l’insonnia; il
resto è il più banale (e
mal girato) rifacimento di film visti mille volte che si possa
immaginare. Non si può pretendere sempre l’originalità, ma
almeno, copiare con dignità! Non ci crederete, ma c’è perfino
l’ascia di Jack Nicholson che sfonda la porta.
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