venerdì 28 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Giappone


 

C’è poco da dire, il Giappone resta la miglior cinematografia asiatica; e alla pattuglia giapponese al Far East Film Festival dobbiamo il miglior drappello di film del FEFF 2024.

Ichiko

Sappiamo veramente chi sono le persone che amiamo? È la stessa domanda di Vertigo di Hitchcock, al quale lo splendido Ichiko di Toda Akihiro (a mio parere il più bello del festival) può farci pensare, non per la trama thriller ma per come in una storia d’amore rende in modo assoluto il dolore. Ichiko, la giovane donna del titolo, convive felicemente da tre anni col fidanzato. Un giorno, dopo che questi le ha fatto una proposta di matrimonio (ma c’entra anche una notizia in tv?), Ichiko inspiegabilmente si allontana in gran fretta da casa e scompare. Rivoltosi alla polizia, il giovane si sente dire che Ichiko non esiste. E qui parte la sua ricerca, che scava nel passato per ricostruire – attraverso le scarne testimonianze di chi l’aveva conosciuta in epoche diverse la realtà di questa persona sempre avvolta nel mistero, che da bambina e da adolescente si faceva chiamare Tsukiko. Lei appartiene, si scopre, a quel consistente numero di giapponesi di cui non c’è traccia ufficiale perché non sono stati registrati alla nascita; ma non è questo il vero segreto nascosto dietro le stranezze (tanto sue quanto di altri che gravitano intorno a lei) che costellano la sua vita.
È stato paragonato a Rashomon ma non è Rashomon perché non parla dell’ambiguità della verità secondo i vari punti di vista opportunisti. Ichiko è una ricerca per trovare i tasselli di un mistero nell'arco del tempo; a occhi italiani più vicino al nostro Pirandello. C’è la stessa tragicità esistenziale de Il fu Mattia Pascal, ma senza neppure l’elemento della scelta presente in Pirandello. Ichiko è una potentissima descrizione della tragicità del destino (non in senso metafisico ma radicato nella realtà) e di come una persona, nonostante tutti i suoi sforzi, ne venga determinata. Un dolore infinito – che solo nelle immagini conclusive tocca (quindi non come presupposizione narrativa ma come commento) i confini linguistici del mélo.

Voice

Si potrebbe considerare un’escursione del Far East Film Festival nei territori del cinema d’essai l’ottimo Voice, della regista giapponese Mishima Yukiko. È una meditazione in tre episodi (più un breve epilogo) con personaggi differenti, in eccellenti interpretazioni. Il tema sotteso ai tre episodi è il rapporto dell’essere umano con la morte, il dolore e soprattutto il ricordo, con una centralità della donna secondo una forte prospettiva di sguardo femminile. Al fondo stanno l’esperienza traumatica e la sofferenza derivata da una violenza sessuale in età infantile – qualcosa che per la regista Mishima ha un aspetto dolorosamente autobiografico.
In estrema sintesi: nel primo episodio un uomo anziano diventato donna riceve i familiari per Capodanno, sotto l’ombra del suicidio di una figlia anni prima. Nota in margine: questo episodio si apre con una bella pagina di preparazione “rituale” del cibo (i credits finali listano un food stylist) visivamente notevole: bellezza di un’erba messa trasversalmente su un gambero in una ciotola!
Nel secondo episodio, una ragazza torna al paese d’origine e suo padre equivoca sul motivo della sua depressione, a rischio che la storia finisca male. Nel terzo episodio, quello più lungo, che è in b/n, dopo il funerale di un ex fidanzato del passato una ragazza compulsivamente incapace di avere sesso incontra un giovane gigolò.
Per inciso, in questo episodio, il giovane gigolò essendone appassionato, ci sono moltissimi riferimenti all’Italia (il “comedian Totò”, Nanni Moretti e La stanza del figlio, la Nutella, oltre a una canzone e alcune frasi in italiano).
Comune alla struttura dei tre episodi è una costruzione a forma di mistero: c’è sempre un “perché?” Nel primo e nel terzo (non nel secondo, peraltro meno potente) il motivo viene svelato in una “scena madre” che naturalmente porta in primo piano la capacità attoriale; indimenticabile l’attrice Maeda Atsuko nel climax del terzo e più lungo episodio.

Takano Tofu

Takano Tofu di Mihara Mitsuhiro è il film vincitore del Gelso d’Oro, il massimo premio del festival, attribuito per votazione del pubblico (mentre Confetti di Fujita Naoya è arrivato secondo, Gelso d’Argento). Film familiare, molto amabile, su un vecchio maestro della fabbricazione artigianale del tofu e sua figlia, vi è ovvio il riferimento (sempre molto usato nel campo del cinema gastronomico) fra la qualità e la sottigliezza del cibo e quella della vita – e implicitamente del film. Grandi le interpretazioni non solo dei due protagonisti ma anche dei caratteristi – per esempio la moglie del barbiere, in una scena a due col protagonista, si mangia la scena.
È interessante, nel film, la presenza di Ozu come punto di ispirazione (non come livello estetico, si capisce). Naturalmente c’è nel concetto base del padre che vuole che la figlia si sposi, raddoppiato dal romance del protagonista con una donna anziana – un topos ozuiano rimodellato come un retelling with tofu, quasi un’affettuosa parodia. Ma oltre ad esso (e come strizzata d'occhio agli spettatori) vi sono alcune cose che producono autentici soprassalti di riconoscimento ozuiano: quindi sempre nel segno di una gentile (auto)ironia. In primo luogo, proprio in apertura del film, vediamo una delle tipiche lanterne di pietra di Ozu: ma non in primo piano, che sarebbe stata una citazione troppo diretta, bensì ben visibile nel quadro. Di lì a poco vediamo un treno, ed è inevitabile che le due immagini si fondano per noi. Poi, quando il protagonista è ubriaco, portato a casa dalla figlia, pronuncia la tipica battuta dei bevitori ozuiani: “Come mi sento bene”. C’è, poi, un’altra immagine, che ricorda molto il finale di Viaggio a Tokyo, ed è l'inquadratura del fiume con un solo battello – che in Ozu alludeva alla morte della moglie. Invero Takano Tofu è un film in cui la minaccia della morte è molto presente (i problemi di cuore del protagonista, l’operazione della sua amica) anche se l'inquadratura, molto riconoscibile, sul fiume non è il triste suggello di Ozu. Bisogna ricordare, infine, un altro teina molto presente nel film, questo non ozuiano: è quello della memoria e degli effetti del bombardamento atomico, che pesano ancora sulle vite dei giapponesi.

Confetti

Affascinante e impalpabile, Confetti (che com’è noto in inglese significa “coriandoli”) è un film di adolescenti, opera prima del trentatreenne Fujita Naoya: apparentemente semplice, aereo, in realtà ricchissimo di suggestioni e significato. Lo potremmo chiamare un Bildungsroman senza angoscia. Il protagonista è Yuki, che lavora con una compagnia itinerante di teatro popolare detto taishu engeki, e sul palcoscenico interpreta parti femminili. Durante la sosta di un mese della troupe in un luogo, Yuki, frequentando la scuola locale, crea un rapporto di amicizia a volte intensa a volte scontrosa con un ragazzo e due ragazze entrando nelle loro vite, mentre in secondo piano vediamo un interscambio anche fra gli adulti. Il teatro che si riflette nella vita (il dramma che mettono in scena alla fine parla di una madre a lungo cercata e infine incontrata), le vite personali che si riflettono l’una nell’altra, la ricerca del futuro con l’urgenza angosciosa dell’adolescenza, la sensazione agrodolce per cui ciascuno invidia quello che non ha mentre chi lo possiede magari non se ne cura. Psicologicamente acuto, ben giocato sul linguaggio del corpo, nonché sull’effetto scenografico di palco e costumi, Confetti è un film sull’adolescenza e il teatro, e non direttamente sullo scambio dei ruoli sessuali che deriva dalla recitazione en travesti – quest’ultimo è ovviamente importante ma non ha i soprassalti psicologici, o i brufoli ideologici, che ci si aspetterebbe in Occidente. Senza adagiarsi in un ottimismo programmatico, ma tuttavia restando sicuro della speranza, è un film pieno di umanità e di un sentimento che potemmo ben chiamare serenità.

Motion Picture: Choke

Un eccellente film, scritto e diretto da Nagao Gen, in b/n e muto – non nel senso che non sentiamo quello che dicono i personaggi (i rumori si sentono) ma che essi proprio non hanno la dote del linguaggio, e comunicano a gesti. Siamo in quello che potrebbe essere un paesaggio postatomico: la protagonista (l'eccezionale Wada Misa) vive in un relitto di costruzione moderna nel mezzo di un bosco e vediamo in “casa” oggetti d'oggi arrugginiti; vive come una donna delle caverne, cacciando, andando al ruscello per prendere l’acqua in una zucca, scambiando pezzi di carne secca con un mercante girovago. In realtà, l’assoluta scomparsa del linguaggio è un’indicazione che il realismo sfocia impercettibilmente sul piano simbolico.
Per capire Motion Picture: Choke è opportuno ripensare all’inizio di 2001 – Odissea nello spazio. Come l'inizio di 2001 (l’osso in mano all'uomo-scimmia) ci mostrava l’inizio dell’umanità attraverso l’invenzione delle armi, in questo panorama muto da nuova “alba del mondo” (lo stupore di lei per la lente che accende un focherello di foglie secche!) è giusto usare per ciò che viene scoperto lungo il film il termine invenzione. L'invenzione del sesso, col giovane catturato, del ballo, del gioco. L’invenzione della tecnica (l’acquedotto). L'invenzione della guerra, contro i tre banditi. L'invenzione della schiavitù. Come ha scritto Mark Schilling in una bellissima recensione ripubblicata sul catalogo del festival, Motion Picture: Choke ripercorre la storia del mondo.
Fino allo sconvolgente sviluppo finale, che credo si possa ancora interpretare in termini di prima volta: c’è nella narrazione un passaggio dall'oggettivo al soggettivo, con una bolla di silenzio in cui anche la protagonista non riesce a sentire il suo urlo; un nero alle sue spalle cancella la “casa”; sguardo in macchina di lei. Siamo spostati definitivamente dal realistico al simboli. L’invenzione della dimensione religiosa.
Anche se fra gli altri interpreti Hiba Daiki (il ragazzo) e Nishina Takashi (il bandito) sono più che notevoli, è eccezionale l’interpretazione di Wada Misa nel ruolo muto e mimico della protagonista, con una capacità “magnetica” di convogliare i sentimenti e rappresentarli, quasi telepaticamente, al pubblico.

Bushido

Il regista Shiraishi Kazuya, che di solito si fa notare per una narrazione enfatica (The Blood of Wolves, Last of the Wolves), in questo period drama vira invece sull’atmosferico, e consegna un film indubbiamente intenso. Il titolo internazionale Bushido non fa niente per dissipare un equivoco: molti confondono ancora i film di samurai con i chambara (scontro fra samurai all’arma bianca), oppure in mancanza di duelli si aspettano un film sentimentale. Non è così col presente film (che al FEFF ha vinto il premio dei Black Dragons, gli abbonati sostenitori).
Yanagida è un samurai ridotto in povertà dopo aver lasciato il castello del suo signore per una falsa accusa. Vedovo, vive con sua figlia Okinu. È un campione di go, e in questa veste fa amicizia con il ricco mercante Genbei (le interpretazioni dei due, rispettivamente Kusanagi Tsuyoshi e Kunimura Jun, sono veramente eccellenti). Quasi tutta la prima ora trascorre in una quieta costruzione dell'atmosfera psicologica (e storica), con una forte attenzione sul gioco del go – il quale naturalmente ha nelle sue mosse addentellati metaforici che a noi occidentali sfuggono.
L’improvviso arrivo di un altro samurai con notizie importanti cambia in profondità il corso della narrazione. Liberato dall'accusa, Yanagida si mette in cerca del vero colpevole per vendicarsi; ma la questione è complicata dalla sparizione misteriosa di una forte somma in casa di Genbei. La seconda parte del film è più sincopata, contiene una dose di suspense (relativa al destino di Okinu che rischia di finire a lavorare in un bordello) e culmina in un momento di duello – anche se questo non conclude la narrazione.

The Yin Yang Master 0

Quando nel lontano 2002, al quarto FEFF, ci siamo deliziati con il fantasy-horror in costume The Yin-Yang Master di Takita Rojiiro (2001), poco sapevamo del fatto che il suo protagonista Abe no Seimei sia una figura importante del mito giapponese, un famoso onmyoji, astrologo e difensore magico dell'Imperatore e della corte imperiale nell’epoca Heian. Abe no Seimei è apparso in più di un film, e gli inizi della sua carriera sono drammatizzati in The Yin Yang Master 0 di Sato Shimako, fantasy con il giovane Abe agli inizi della carriera in una scuola di onmyoji piena di intrighi. Il film ha degli aspetti affascinanti (il danzatore mascherato che crea danzando la magia nera) ma andando avanti si perde un po’. C’è davvero da riflettere su quanto il cinema abbia perso nel suo patto faustiano con la CGI. Come che sia, pur privo della magia dei vecchi fantasy giapponesi e hongkonghesi, The Yin Yang Master 0 si lascia vedere; si apprezza l’impegno dei tre interpreti principali; e si ammira per tutto il film la grande bellezza dei costumi.

Gold Boy

Oggi gli adolescenti assassini sono un fenomeno sociologico – è quello che l’Occidente ottiene, e si merita, per aver distrutto il sistema educativo – ma il bel Gold Boy di Kaneko Shusuke ci riporta all’antico concetto del ragazzino come mostro, "giglio nero" in un universo che non se lo aspetta - e tanto più inquietante per questo.
In verità i mostri del film sono due. Il primo è un adulto che ha ucciso i genitori della moglie come vendetta per un suo tradimento, fingendo un incidente (bisogna vederlo quando, attore consumato, piange davanti alla polizia). Il secondo è il tredicenne Asahi che, essendo venuto per caso in possesso di una prova contro l’assassino, cerca di ricattarlo con l'aiuto di due non tanto intelligenti amici (molto più vittime che colpevoli). Uno penserebbe che fra un adulto astuto quanto spietato e un trio di adolescenti non c’è partita, ma Asahi è un vero genietto del male (e in segreto ha già un curriculum criminale di tutto rispetto). L’abile regista di Death Note (anche quello, in fondo, era una battaglia di ingegni...) è al suo meglio nel descrivere questa “gara a fregarsi” senza esclusione di colpi, e descrive la totale, agghiacciante amoralità di Asahi senza mai cedere al buonismo che avrebbe attratto un regista italiano. Alla fine muoiono tutti, come nell'Amleto, ed è l'unica soluzione possibile.

Nessun commento: