Michael Mann
Perché
il bellissimo Ferrari di Michael Mann ci fa pensare a un western
anche se non ne ha le caratteristiche? Perché quei valori fondanti
su cui si è sempre esercitato il cinema classico americano, dal
quale discende Mann, li ha espressi nella forma più pura nel
western: sicché la forma richiama alla memoria il contenuto, in uno
scambio di prospettiva (è questo l’equivoco di molti film
catalogati con l’ossimoro di “western moderni”, come Il
gigante). In Ferrari i temi portanti sono con tutta evidenza quelli,
archetipali, del western: il Patriarca, la Difesa (del ranch o del
cattle empire o qui dell’azienda), l’Eredità, la Gara come
momento di prova della realtà.
Ferrari
però è ambientato in Italia, un paese quanto mai avverso al western
(tant’è vero che volendo farne ha dovuto inventarsene una variazione tutta sua, picaresca e barocca). In America non sarebbe possibile la frase di
Ferrarti che l’unica cosa che gli italiani non perdonano è il
successo. Gli americani hanno dei miti fondativi: questo non è
concesso a Ferrari, tanto più che, come molti eroi manniani (il film
concentra il ritratto biografico in un anno di vita del protagonista,
il 1957), vive in un momento di trapasso valoriale: nello specifico,
nell’Italia sul crinale fra la ricostruzione dopo la sconfitta e
gli albori del miracolo economico che ne sarà la rifondazione – e
inoltre in un momento difficile per l’azienda (la scena della
telefonata di Gianni Agnelli).
Lasciando
da parte The Fortress, che è altra cosa, Ferrari è il film più
“esotico”, nel senso di immersione in una cultura non americana, di Mann. Nota in margine: da notare il bel lavoro sul dialogo
inglese, con l’impiego di termini italiani in misura maggiore del
solito. La sceneggiatura è di Troy Kennedy-Martin. Il film non è inficiato qualche piccola imprecisione di
messa in scena storica (per esempio nel 1957 il celebrante avrebbe
detto “Ite, missa est”, e le sirene nella scena del grande
incidente hanno il suono sbagliato).
Alla
base del film c’è un uomo (splendidamente interpretato da Adam
Driver, a dispetto di Favino) imprigionato in una doppia coppia dove
lui rappresenta il medio maschile: da un lato la famiglia
istituzionale, con la moglie Laura (Penelope Cruz) che ha anche un
potere economico su di lui, dall'altro la famiglia affettiva con
l’“amante” Lina (Shailene Woodley), in realtà una moglie
parallela, che gli ha dato un figlio che potrebbe sostituire quello
morto. “Ho diritto a un erede”, dice Ferrari. Enzo Ferrari con le
sue due donne non soffre di una scissione – l’uomo di Mann non è
internamente scisso (la scissione semmai è tra lui e la società) –
ma non ha la possibilità di scegliere; questa è la sua condanna, ed
è anche il contrappasso di quel “muro” che (come dichiara nel
film) ha eretto intorno alle proprie emozioni. L’eroe manniano, in
ultima analisi, è sempre solo. Ferrari è un uomo che non parla;
solo davanti alla tomba del figlio morto esprime quella debolezza che
non gli è concesso di condividere con gli altri (nemmeno con l’amata
Lina), raccontandogli quello che accade in una scena di confidenza
commovente come John Wayne ne I cavalieri del Nord Ovest.
Individualismo
di Ferrari! Anche in questo è in tutto e per tutto l’eroe
manniano, caratterizzato da un professionismo che spesso confina,
come nel presente film, con l’ossessione. Ferrari è chiuso nella
sua missione, che non è economica – come per la rivale Maserati –
ma sportiva: non gareggia per vendere auto, fabbrica auto per
gareggiare (e c’è qualcosa di più manniano di una corsa su
strada?)
Se
tutto questo ci ricorda Howard Hawks, è giusto: Hawks è il grande
nome da richiamare quando parliamo di Michael Mann. Del resto, si
potrebbe ricondurre tutta la dialettica interna al cinema epico
americano classico alla dialettica Ford-Hawks. I film di Mann
contengono la vita, che, potremmo dire, “sfugge da tutte le parti”.
Il grande obiettivo della narrazione moderna seguita al classicismo è
di trasmettere questa caratteristica (quella classica la disciplinava
nella reductio ad unum del racconto); e Mann è allo stesso tempo
classico, perché il racconto è per lui l’istanza principale, e
post-classico, perché non manca nel suo cinema l'apertura alla
varietà della vita (e la consapevolezza aperta del linguaggio).
Sul
piano tematico ritroviamo in Ferrari le categorie di Mann. La
famiglia, di cui abbiamo già detto. Il doppio, qui con la moglie
Laura che appare come doppio imperfetto (mentre per esempio in Heat
si realizzava il doppio perfetto) – e in quanto tale, non può
innestare il momento del riconoscimento che tanta parte ha in Mann.
Il tormento del passato e la potenza della memoria; non a caso è
centrale nel film quel “giardino di pietra” (come direbbe F.F.
Coppola) che è il cimitero, il luogo del ricordo e del rimpianto. Il
tormento del passato non è espresso a parole ma sopportato virilmente,
ancora alla Hawks.
E
naturalmente il tema, centrale, della visione: sul quale non mi
soffermo perché posso rimandare a un magnifico articolo di Paolo A.
D’Andrea (al quale sono fortemente debitore), Lo sguardo di
Ferrari, che si può leggere online:
https://www.eccedenzeblog.com/post/lo-sguardo-di-ferrari
Sul
piano della scrittura ritroviamo naturalmente in Ferrari le
caratteriste stilistiche di Mann, dallo stile di ripresa dei visi
(primissimi piani stretti, dettagli che “tagliano”) al suo uso
del ralenti: in particolare negli incidenti ritroviamo i “ralenti
emozionali” manniani, che giustamente non sono estetici ma
narrativi.
Esposto
lungo le coordinate del pericolo e del destino, Ferrari è puro
cinema epico. I piloti della Ferrari (più di quelli della Maserati)
sono come soldati in guerra; e infatti, in una scena stupenda, la
notte prima della corsa, come soldati la notte prima della battaglia,
scrivono una (possibile ultima) lettera alle loro donne. Lo stesso
afflato epico si ha in quel solenne “catalogo delle navi” che è
la partenza delle auto, a turno, per le Mille Miglia, nella notte
sotto la pioggia.
Non
solo nella pagina paurosa dell’incidente, ma lungo tutto il film
aleggia l’ombra della morte. Tutti i film di Michael Mann parlano
della morte; ma è ovvio, perché Mann è un autore umanista, mette
l’uomo al centro; e di che cosa è costituito l’uomo, al di là
della carne? La società idiota contemporanea tende a nasconderselo: ma è costituito di realizzazioni, di memoria, e di finitezza (è la
nostra mortalità ciò che ci rende umani).
C’è
una commovente fragilità nell’aggrapparsi degli eroi manniani al
loro bagaglio di ricordi – appunto perché non sono fordianamente
inseriti nel processo di costruzione di una nazione (pur rendendosi
conto di tutti i suoi limiti) ma sono soli. Ferrari però apre al
futuro concludendosi su una discendenza ritrovata – ove il figlio
illegittimo (che Ferrari potrà riconoscere solo dopo la morte della
moglie) è una prosecuzione del padre, e fissa la sua missione nel
tempo. Avviandosi con lui per la prima volta verso verso la tomba del
figlio morto: “Vieni… ti presento tuo fratello Dino”.
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