Wim Wenders
Di
recente è stato rieditato il film di Wim Wenders Tokyo-Ga, del 1985,
in cui il regista tedesco compie una triplice ricerca: della memoria
del maestro giapponese Ozu Yasujiro con le sue immagini “chiare, pulite,
trasparenti”; dell’eredità visiva di Ozu ormai perduta nella
Tokyo contemporanea; e infine – la sua ricerca di sempre –
dell’immagine pura, che abbia senso, nel diluvio di immagini
odierno, nell’universo dei simulacri.
Col
suo nuovo, splendido film Perfect Days Wenders, tornando a Tokyo, ha ripreso in mano il problema
di Tokyo-Ga e gli ha dato una risposta affermativa e vincente: sì, è
ancora possibile trovare la purezza dell’immagine. Perfect Days racconta le
giornate “sempre uguali” di un addetto alla pulizia dei gabinetti
pubblici di Tokyo, un uomo silenzioso, gentile, estremamente dedito
al suo umile lavoro, interpretato da Yakusho Koji. Il signor Hirayama
si sveglia, si lava, esce (la musica è diegetica: le audiocassette
di Van Morrison e Lou Reed che ascolta in macchina), lavora, mangia
in una tavola calda dove il proprietario lo accoglie ogni giorno con
la stessa frase, va al bagno pubblico, torna a casa, stende il futon,
legge, si addormenta; vediamo anche i suoi sogni. A ora di pranzo
Hirayama mangia un tramezzino in un parco (nota come si inchina
davanti a un torii prima di attraversarlo) e fotografa gli alberi,
che sono amici, sentiamo nel film. Nelle sue foto cerca di cogliere
quell’attimo irripetibile della luce che filtra tra le fronde
(komorebi). Anche Hirayama cerca di raggiungere l'immagine pura, e infatti ne butta via molte. Il b/n accomuna le foto di Hirayama e i suoi sogni
(leggiamo nei titoli di coda: dream installations di Donata Wenders,
la moglie di Wim).
Con
quieta intensità nella leggerezza del tocco Wenders traccia i gesti ripetuti della quotidianità
conferendo loro una risonanza sobria e ammirevole che li carica di
significato poetico; il senso ritornante del tempo ha qualcosa dello
haiku nella sua contemplazione dell’esistenza. Un gioco di Hirayama
con la nipote scappata di casa che passa alcuni giorni da lui rende
perfettamente il concetto base della sua vita: lo vediamo quando
giocano a ripetersi “La prossima volta è la prossima volta”
mentre invece “Adesso è adesso” (imawa ima). “Adesso è
adesso”: la perfetta concentrazione del tempo nell’istante,
l’assolutezza del momento, nella consapevolezza dell’impermanenza,
entro il grande flusso delle cose. Wenders crea un’opera che Ozu
avrebbe apprezzato (occorre appena ricordare che Hirayama è uno dei
cognomi ritornanti nell’opera di Ozu, che amava usare gli stessi
nomi di film in film); al di là dello spirito, l’influsso di Ozu
si sente in particolare in una scena, quella della canzone della
padrona del bar. Perfect Days è una narrazione, ma non nel solito
senso drammaturgico del cinema. È, potremmo dire, un racconto del
non-racconto; qualcosa che Wenders ha spesso cercato, e qui possiamo
citare un altro suo bellissimo film appena rieditato, Alice nelle
città.
“Il
mondo è fatto di tanti mondi,” dice con la sua profondità
tranquilla Hirayama alla nipote, “alcuni sono collegati fra loro,
altri no”. Wenders, lo sappiamo, è sempre andato in cerca degli
angeli, e in un certo modo anche Hirayama è un angelo. La sua muta
gentilezza (se può, non parla mai) va dalle piantine che coltiva al
giovane collega rumoroso e scemotto, alla nipote, all’uomo
disperato che incontra nel finale; ma se c’è un episodio che la
esprime con impalpabile delicatezza di filigrana, è quello della
partita a “tondini e crocette” che gioca con uno sconosciuto
attraverso un biglietto lasciato in un interstizio in una toilette.
Si vorrebbero citare tanti altri dettagli e personaggi: perché
questo film in cui sembra che non succeda quasi niente è gonfio di
una incommensurabile vastità.
Quest’uomo
è tutt’altro che privo di emozioni (il cinema wendersiano non è
sempre una riflessione sul rapporto fra l’individuo e le sue emozioni?); ma le esprime solo quando è da solo. Con sorrisi segreti
– o anche con il pianto, come dopo l’incontro con la sorella, o
con il riso e il pianto insieme nel superbo finale in auto. Film
antipsicologico (come in Ozu), tuttavia Perfect Days ci dice molte
cose sul suo protagonista. Scopriamo che il signor Hirayama ha un
passato (doloroso) alle spalle; ipotizziamo che forse possa avere
un futuro diverso da quel suo presente continuo. Certi avvenimenti,
come la visita della nipote, portano un cambiamento nella sua vita
quotidiana. Ma questi sviluppi non determinano il racconto del film,
non lo indirizzano, bensì vi vengono assorbiti, con una naturalezza
sempre fluente.
Tutta
l’operazione di Wenders non si sarebbe potuta compiere senza
l’interpretazione dell’incredibile (è l’aggettivo che usa
anche Wenders nei ringraziamenti a fine film) Yakusho Koji. Non è
questione che Yakusho sia un ottimo attore: già lo conoscevamo come
tale (The Woodsman and the Rain, Retribution, 13 assassini); ma in
questo ruolo quasi muto fa di più. Mette in atto la capacità
particolarissima di creare la comunicazione totale senza proferire
parola, di trasmettere una comunicazione umana assoluta mediante i minimi
movimenti del suo viso: una capacità che lo mette nella stessa
categoria mimica di un Charlie Chaplin.
4 commenti:
Giorgio, ancora una volta : chapeau, recensione meravigliosa, degna del film, e tu sai che di più non si può. Grazie.
Bellissimo pezzo
Recensione splendida come il film. Grazie.
Recensione da innamorato di WW e del cinema in generale.
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