sabato 13 gennaio 2024

Perfect Days

Wim Wenders

Di recente è stato rieditato il film di Wim Wenders Tokyo-Ga, del 1985, in cui il regista tedesco compie una triplice ricerca: della memoria del maestro giapponese Ozu Yasujiro con le sue immagini “chiare, pulite, trasparenti”; dell’eredità visiva di Ozu ormai perduta nella Tokyo contemporanea; e infine – la sua ricerca di sempre – dell’immagine pura, che abbia senso, nel diluvio di immagini odierno, nell’universo dei simulacri.
Col suo nuovo, splendido film Perfect Days Wenders, tornando a Tokyo, ha ripreso in mano il problema di Tokyo-Ga e gli ha dato una risposta affermativa e vincente: sì, è ancora possibile trovare la purezza dell’immagine. Perfect Days racconta le giornate “sempre uguali” di un addetto alla pulizia dei gabinetti pubblici di Tokyo, un uomo silenzioso, gentile, estremamente dedito al suo umile lavoro, interpretato da Yakusho Koji. Il signor Hirayama si sveglia, si lava, esce (la musica è diegetica: le audiocassette di Van Morrison e Lou Reed che ascolta in macchina), lavora, mangia in una tavola calda dove il proprietario lo accoglie ogni giorno con la stessa frase, va al bagno pubblico, torna a casa, stende il futon, legge, si addormenta; vediamo anche i suoi sogni. A ora di pranzo Hirayama mangia un tramezzino in un parco (nota come si inchina davanti a un torii prima di attraversarlo) e fotografa gli alberi, che sono amici, sentiamo nel film. Nelle sue foto cerca di cogliere quell’attimo irripetibile della luce che filtra tra le fronde (komorebi). Anche Hirayama cerca di raggiungere l'immagine pura, e infatti ne butta via molte. Il b/n accomuna le foto di Hirayama e i suoi sogni (leggiamo nei titoli di coda: dream installations di Donata Wenders, la moglie di Wim).
Con quieta intensità nella leggerezza del tocco Wenders traccia i gesti ripetuti della quotidianità conferendo loro una risonanza sobria e ammirevole che li carica di significato poetico; il senso ritornante del tempo ha qualcosa dello haiku nella sua contemplazione dell’esistenza. Un gioco di Hirayama con la nipote scappata di casa che passa alcuni giorni da lui rende perfettamente il concetto base della sua vita: lo vediamo quando giocano a ripetersi “La prossima volta è la prossima volta” mentre invece “Adesso è adesso” (imawa ima). “Adesso è adesso”: la perfetta concentrazione del tempo nell’istante, l’assolutezza del momento, nella consapevolezza dell’impermanenza, entro il grande flusso delle cose. Wenders crea un’opera che Ozu avrebbe apprezzato (occorre appena ricordare che Hirayama è uno dei cognomi ritornanti nell’opera di Ozu, che amava usare gli stessi nomi di film in film); al di là dello spirito, l’influsso di Ozu si sente in particolare in una scena, quella della canzone della padrona del bar. Perfect Days è una narrazione, ma non nel solito senso drammaturgico del cinema. È, potremmo dire, un racconto del non-racconto; qualcosa che Wenders ha spesso cercato, e qui possiamo citare un altro suo bellissimo film appena rieditato, Alice nelle città.
Il mondo è fatto di tanti mondi,” dice con la sua profondità tranquilla Hirayama alla nipote, “alcuni sono collegati fra loro, altri no”. Wenders, lo sappiamo, è sempre andato in cerca degli angeli, e in un certo modo anche Hirayama è un angelo. La sua muta gentilezza (se può, non parla mai) va dalle piantine che coltiva al giovane collega rumoroso e scemotto, alla nipote, all’uomo disperato che incontra nel finale; ma se c’è un episodio che la esprime con impalpabile delicatezza di filigrana, è quello della partita a “tondini e crocette” che gioca con uno sconosciuto attraverso un biglietto lasciato in un interstizio in una toilette. Si vorrebbero citare tanti altri dettagli e personaggi: perché questo film in cui sembra che non succeda quasi niente è gonfio di una incommensurabile vastità.
Quest’uomo è tutt’altro che privo di emozioni (il cinema wendersiano non è sempre una riflessione sul rapporto fra l’individuo e le sue emozioni?); ma le esprime solo quando è da solo. Con sorrisi segreti – o anche con il pianto, come dopo l’incontro con la sorella, o con il riso e il pianto insieme nel superbo finale in auto. Film antipsicologico (come in Ozu), tuttavia Perfect Days ci dice molte cose sul suo protagonista. Scopriamo che il signor Hirayama ha un passato (doloroso) alle spalle; ipotizziamo che forse possa avere un futuro diverso da quel suo presente continuo. Certi avvenimenti, come la visita della nipote, portano un cambiamento nella sua vita quotidiana. Ma questi sviluppi non determinano il racconto del film, non lo indirizzano, bensì vi vengono assorbiti, con una naturalezza sempre fluente.
Tutta l’operazione di Wenders non si sarebbe potuta compiere senza l’interpretazione dell’incredibile (è l’aggettivo che usa anche Wenders nei ringraziamenti a fine film) Yakusho Koji. Non è questione che Yakusho sia un ottimo attore: già lo conoscevamo come tale (The Woodsman and the Rain, Retribution, 13 assassini); ma in questo ruolo quasi muto fa di più. Mette in atto la capacità particolarissima di creare la comunicazione totale senza proferire parola, di trasmettere una comunicazione umana assoluta mediante i minimi movimenti del suo viso: una capacità che lo mette nella stessa categoria mimica di un Charlie Chaplin.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Giorgio, ancora una volta : chapeau, recensione meravigliosa, degna del film, e tu sai che di più non si può. Grazie.

Anonimo ha detto...

Bellissimo pezzo

Anonimo ha detto...

Recensione splendida come il film. Grazie.

Anonimo ha detto...

Recensione da innamorato di WW e del cinema in generale.