Clint Eastwood
Sosteneva Ejzenštejn, in un famoso saggio, che Charles Dickens e il suo tipo di costruzione narrativa stanno all'origine - tramite Griffith - dell'estetica del cinema americano. Ebbene, Dickens è assunto esplicitamente a nume titolare di “Hereafter” di Clint Eastwood. George (Matt Damon) ascolta in audiolibri brani dickensiani letti da Derek Jacobi, tiene il ritratto di Dickens in casa, visita la casa di Dickens a Londra, dove poi compare Derek Jacobi as himself con una lettura di Dickens alla Book Fair. Ma al di là di questo, il grande film di Eastwood è per sé dickensiano: il gusto fluido del romanzesco, il filo segreto d'ironia, la capacità di trattare il patetico, il lampo inconfondibile di autenticità. Ictu oculi “sembra Dickens” più d'una pagina del film - per fare un solo esempio, la scena dei due bambini che rimettono freneticamente in ordine la casa per nascondere agli intrusi dei servizi sociali le manchevolezze della madre ubriaca e drogata.
Si dice che “Hereafter” è un film sull'aldilà. E' vero, anche se riduttivo. Eastwood sovente nel suo cinema ha adottato lo schema dei destini paralleli; qui l'americano George ha visioni dell'aldilà se tocca la mano dei parenti e comunica coi morti, ma sente questa capacità come un peso intollerabile e ne rifugge cercando di vivere una normale vita da operaio; la giornalista francese Marie è segnata dall'esperienza di pre-morte avuta durante il grande tsunami asiatico e si rovina la carriera per testimoniarne; il bambino inglese Marcus ha visto morire suo fratello gemello in un incidente e, separato dalla madre, cerca disperatamente un santone o un medium che possa metterlo in comunicazione con lui. I tre si muovono in un racconto solennemente interlineato - che così incrocia San Francisco, Parigi e Londra - finché il plot non li fa incontrare a Londra, legando con bella soluzione narrativa le loro vite. In questo saltare da una storia all'altra, contro il rischio del frazionamento Eastwood inserisce eleganti collegamenti (come le lettere che si toccano nella bella calligrafia di una volta) a rinforzare impalpabilmente l'unità tematica. A livello della storia: dalle bombe musulmane di Londra si passa allo shock che provoca questa notizia in tv a Parigi. A livello del discorso: sulla scena di una falsa medium a Londra entra, con prolessi del sonoro, lo squillo di un telefono che apre il segmento seguente in America. Ancora più interessanti sono i collegamenti illusori: l'aereo che riporta Marie in patria si chiama Virginia Atlantic (Virginia è un nome d'importanza capitale nel primo collegamento mediatico di George); una scena a Parigi si apre col passaggio di un ragazzino in bici che a prima vista sembra l'inglese Marcus; a Londra una donna che in campo lungo scende le scale di un edificio ci ricorda la Melanie dell'episodio americano.
E' un film sull'aldilà, certo; ma soprattutto è un film su questa terra. Nell'episodio della scuola di cucina a San Francisco sentiamo dire dal cuoco italiano: “la cucina prende tutti i sensi”. Possiamo assumerla come una metafora della vita, che va conosciuta, esplorata (l'assaggio bendato dei cibi), e accettata e vissuta con amore e coraggio. Il tema della comunicazione con l'aldilà fa da catalizzatore nelle nostre vite quotidiane.
Solo in un frangente - quando nella metropolitana il fratello morto fa volar via il berretto a Marcus, facendogli perdere un treno che esploderà (sono gli attentati di Londra) - l'oltretomba influisce sui vivi. I morti vivono una post-vita propria; e semmai sono loro a sentire l'influsso della vita sulla terra in relazione al tema molto eastwoodiano del desiderio di perdono per le proprie colpe (il padre di Melanie). E se George può comunicare con l'aldilà, il suo dono si confonde in mezzo a una marea di ciarlatani, che Eastwood ci fa sfilare davanti in una superba sequenza ironica (che, a proposito di Dickens, sarebbe degna dei “Pickwick Papers”).
In effetti, George, Marie e Marcus rientrano pienamente nel novero degli eroi eastwoodiani, caratterizzati dall'indomabilità e dalla solitudine: la mancanza dell'amore o la separazione dalla persona amata appare come una specie di prova dell'anima - che si traduce alla fine in un nuovo amore per Marie e George, nel ricongiungimento con la madre per Marcus. Alla base di tutto c'è un concetto dal significato molto forte in Eastwood: la scelta e la responsabilità. George non vuole sfruttare commercialmente il suo dono, ma il suo peccato originale è quello di rifiutarlo (in una scena straziante chiude la porta in faccia a una madre che ha perso la figlia); suo fratello sarà un profittatore ma enuncia una verità quando gli dice “E' la tua natura... non la puoi sfuggire per sempre”. La stessa responsabilità per cui Marie sente di dover scrivere il suo libro sull'aldilà anche a costo di rovinarsi la vita. La stessa responsabilità in cui sono cresciuti i due fratelli che si prendono cura della madre.
Per questa via assistiamo a una felice fusione fra la complessità romanzesca “dickensiana” e il modo narrativo classico, onesto e diretto di Eastwood. Clint è un regista classico perché ha mantenuto la capacità di portare nei film la vita vera - lontano tanto dall'ottovolante fantastico del cinema di genere quanto dalla concettosità dei film “d'arte”. Guardate il funerale del fratellino morto, con il drammatico realismo di quel trio di sconfitti in prima fila in chiesa. Guardate l'assaggio bendato dei cibi da parte di George e Melanie, col bellissimo modo in cui il loro dialogo passa dal cibo da identificare alla loro vita personale (e tutta la sequenza seguente che coinvolge la ragazza, Bryce Dallas Howard in un'interpretazione di splendida espressività). La rottura al ristorante fra Marie e un amante sleale a Parigi. Anche la scena preternaturale in cui Marcus tramite George riesce finalmente a mettersi in contatto col fratello morto sa raggiungere una sconvolgente autenticità. Così, non occorre credere ai Campi Elisi che ci attendono dopo la vita per commuoverci davanti a un film di dolorosa bellezza.
martedì 18 gennaio 2011
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