lunedì 3 gennaio 2011

American Life

Sam Mendes

Burt e Verona aspettano una bambina, e abitano vicino ai genitori di lui per stare vicino ai (leggi: contare sui) futuri nonni. Ma quando scoprono che questi ultimi hanno tutt'altri progetti, i due decidono di andare a vivere in un posto più piacevole. E allora “Away We Go”, ce ne andiamo via, di Sam Mendes, in Italia “American Life” (il vacuo titolo in inglese è un'invenzione di quei geni dei nostri distributori per capitalizzare sul ricordo di “American Beauty”) - cronaca del loro viaggio in varie città dove conoscono qualcuno, con l'idea di scegliere quella dove stabilirsi.
Già nel folle incontro coi genitori di Burt che ghignando di gioia annunciano che vendono la casa e se ne vanno in Europa, vediamo il gelo esistenziale di “American Beauty” e “Revolutionary Road” diventare commedia. C'è in Sam Mendes una componente di humour che ricorre in tutta la sua opera ma cui si pensa poco perché il suo fondo tragico e riflessivo la soverchia. “American Life”, assumendo i toni della comedy pur senza esserlo in senso stretto, la porta in primo piano. E come per qualsiasi umorismo che fa onore al suo nome, esso non si riduce al buffo dell'interazione sociale (o peggio al buffo del potere: la forma più facile di umorismo che si conosca) ma tocca l'esistenza in sé. Basta vedere com'è indicibilmente comica la sequenza d'apertura, col cunnilingo di Burt a Verona e l'immortale ammonizione di lei “Non soffiare!”, dopo di che lui vocifera la sua scoperta che lei è incinta deducendolo dal sapore diverso del suo sesso - e si prende uno sberlone che lo scaraventa giù dal letto. Stacco ellittico e vediamo lei col pancione. Qui vale l'osservazione generale che a rendere buffa la vita altrui non sono le cose in sé, bensì il fatto di essere osservate. Si addice alla commedia, se non alla fisica, la volgarizzazione del principio di indeterminazione di Heisenberg: la presenza dell'osservatore modifica il fenomeno.
Ma torniamo al film. Diviso in capitoli con la didascalia “Away to...”, il peregrinare della coppia ci porta dapprima a Phoenix, da un'amica demente e suo marito depresso (“Non so come mai, non ci ammettono nei migliori circoli del golf”), con due bambini già destinati allo psicoanalista - o alla galera; puro horror familiare sullo sfondo delle corse dei levrieri (facile immaginare che un regista tutt'altro che alieno dal simbolismo come Sam Mendes le prenda come metafora dell'American way of life nel suo senso più cupo). Poi a Tucson, dalla sorella di Verona, con la partecipazione speciale di un'altra madre castratrice nella sala d'attesa dell'aeroporto; e il dialogo con la sorella ci palesa il dolore irrisolto di Verona per la morte improvvisa dei loro genitori, vissuta come un abbandono, tanto che non vuole più rivedere la loro casa (ecco un tema base del film: l'impossibilità di prevedere i dolori della vita). Poi a Madison, con una superba interpretazione, da Oscar, di Maggie Gyllenhaal nelle vesti di hippie in ritardo, e un'esilarante pagina di litigio finale. Quindi a Montreal, dove sembra realizzarsi l'utopia, con due amici felici in una casa piena di bambini adottati di ogni colore – tanto che i nostri due decidono di stabilirsi lì; ma dietro l'utopia spunta il dramma, con la depressione nascosta dell'amica che è sterile. Infine a Miami, dove il fratello di Burt è stato abbandonato dalla moglie con una bambina alla quale non sa come dire la verità. Burt (John Krasinki), occhialuto e barbuto, è il classico cucciolone americano; Verona (Maya Rudolph) è più intelligente, pur con la sua fragilità nascosta, e piuttosto rotta della loro situazione precaria. Mentre a prima vista “American Life” pareva una descrizione della classica coppia che scoppia (per cui prendiamo con beneficio d'inventario, e una cinica alzata di sopracciglio, le ripetute dichiarazioni d'amore dei due - che invece sono verissime), si rivela essere un'enciclopedia satirica, attraverso la formula del road movie, del matrimonio e della paternità/maternità nell'America d'oggi.
In tutto il dialogo del film ritorna come elemento secondario un'attenzione inquisitoria sulla parola: aggettivi da evitare, termini sbagliati, vocaboli spiacevolmente caratterizzanti. Quest'insistenza sulla parola, quasi un tormentone, è in realtà una cosa molto seria; rappresenta la domanda fondamentale: di cosa stiamo parlando?
Perché “American Life” è in ultima analisi un film sulla serietà. Parla della crescita: Burt e Verona entrambi provengono da quella tendenza all'adolescenza eterna che è la caratteristica principale - o forse il grande equivoco - dell'ultimo secolo in Occidente. Parla della necessità di vivere accettando l'idea che le risposte non sono tutte scritte su una pagina rosa, e che il futuro possa portare il disastro e la perdita (questo si riflette simbolicamente nel lavoro di Burt: l'assicuratore).
Così, l'ultima didascalia recita semplicemente “Home”. Siamo nel Deep South; Burt e Verona decidono di andare a vivere nella casa dei genitori morti di lei. L'ultima immagine ce li mostra di schiena seduti, davanti a un fiume che è sicuramente il Mississippi (cui alludeva un dialogo all'inizio: Verona dice a Burt di avere avuto un'infanzia alla Huckleberry Finn). Perché il Mississippi è il padre dell'America; la casa ereditata dai genitori e in senso più metafisico il fiume simboleggiano il ritorno alle radici, l'alternarsi delle generazioni, la continuità - il grande valore che è mancato al secolo – unita all'accettazione dell'esistenza dell'imprevisto e della preziosa fragilità della vita. Sono sentimenti che conosce bene Eastwood, ad esempio: ma Eastwood è un vecchio, che conosce il valore delle cose. Sam Mendes è più giovane ma l'ha capito.

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