Andrea Molaioli
Era prevedibile che “La ragazza del lago”, esordio di Andrea Molaioli, già aiuto regista di Moretti e altri, facesse buoni incassi in Friuli, giacché non sono molti i film girati nella nostra regione; ma questo film solido (forse l’aggettivo che capita meno spesso di usare per il cinema italiano) è stato un successo a sorpresa nazionale. Il film trapianta un romanzo giallo svedese, con larghe modifiche, in Friuli: un paesaggio friulano cupo, nebbioso, bagnato, dalla solennità terragna che ispira un sentimento quasi di timore (Molaioli usa la montagna friulana esattamente come Johnnie To in “Yesterday Once More”).
Qui s’impone un’avvertenza importante: se è sempre scortese non avvertire quando una recensione svela la trama, per un film giallo è un delitto; dunque il lettore è qui avvertito, e consigliato di non continuare se non ha ancora visto il film. Film solido, dicevo; non un capolavoro ma un esordio di tutto rispetto; e non credo di dar voce a un pregiudizio se osservo che alla visione lascia un’impressione, come dire, poco italiana. E di quale cultura cinematografica, allora? Io direi francese. Perché ricorda davvero la tradizione del cinema francese (quella tradizione che i ragazzi della Nouvelle Vague maltrattarono un po’ troppo): un cinema di atmosfera intensa che si basava sullo sviluppo “teatrale” offerto da una sceneggiatura drammaturgicamente forte - la quale necessariamente aveva bisogno di realizzarsi nell’interpretazioni di ottimi attori.
Digressione in proposito: vedendo Toni Servillo in tutto il film, vedendo i suoi ruvidi confronti con Omero Antonutti, nonché il suo meraviglioso gioco attoriale, fatto di una napoletanità minimalista, con l’assistente dai capelli bianchi Nello Mascia, vedendo la grande recitazione, trattenuta al minimo e di espressività fulminante, di Anna Bonaiuto, possiamo solo sentire più acutamente che in Italia abbiamo attori che manco ci meritiamo, visto lo stato del nostro cinema.
Torniamo al discorso e allarghiamolo ancora: questo film ricorda il “giallo” in generale com’è declinato in Francia: che è, viene da dire, “geologico”: l’indagine non scava un singolo segreto ma antiche ramificazioni, viluppi di segreti stratificatisi nel tempo; nel che certamente si sente l’eredità del naturalismo francese (“race, milieu, moment”). Non a caso, in numerosi dei romanzi di Maigret di Georges Simenon, non ha quella grande importanza l’identità anagrafica del colpevole; l’indagine ha scavato dentro tutto un mondo, ci ha rivelato tutto un ambiente; sarà stato risolto un piccolo mistero, ma soprattutto è stato rivelato un dolore universale. E queste parole non potrebbero riferirsi senz’altro a “La ragazza del lago”?
Dove il grande mistero non è chi abbia ucciso Anna (in fondo l’urgenza di saperlo si attenua quando veniamo a sapere che è stato quasi un suicidio, che volutamente non si è difesa); ed è solo in parte la storia del bambino disturbato che emerge nell’indagine. Il grande mistero è quello del commissario Sanzio/Toni Servillo. questo Maigret sfortunato: il film ce lo svela solo parzialmente, eppure è la piccola consolazione conclusiva che lo riguarda ad apportare quel precario sentimento del “ricomporsi dei frammenti delle cose” che chiamiamo, per abitudine, la soluzione.
Così, ne “La ragazza del lago” il “whodunit”, il “chi è stato?”, perde d’importanza. Ciò dà una certa giustificazione a quella che oggettivamente è un’esagerazione nel porre lo spettatore su una falsa pista con la scena della bambina all’inizio. Ma in questa dimensione del dolore universale possono rientrare allo stesso titolo, accanto alla malattia e la rinuncia, l’ombra della pedofilia; l’ambiguità del padre di Anna quando si scopre nei filmati quello sguardo desiderante, quasi incestuoso; la disperazione e l’odio reciproco fra un padre e un figlio (“il paralitic e il mat!”, impreca Omero Antonutti); e financo la morte di un vecchio coniglio malato, che forse è naturale e forse – possiamo dirlo? – un delitto.
(Il Nuovo FVG)
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1 commento:
Questa è proprio una buona recensione!
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