venerdì 18 gennaio 2008

La Città Proibita

Zhang Yimou

C’è chi l’ha trovato “freddo” - mentre questa vertiginosa storia di congiure di palazzo, “La Città Proibita” di Zhang Yimou, vanta un’affascinante sintonia tra argomento e linguaggio. Si guardi l’apertura: il risveglio e la vestizione delle ancelle in una fuga prospettica, moltiplicazione infinita d’un movimento meccanico e ritmato, mentre un gruppo di cortigiani percorre i corridoi del Palazzo gridando l’ora congiunta a massime di saggezza. La “freddezza” del film non è altro che la duplicazione sul piano linguistico della vita di Palazzo, in cui tutto è codificato, tutto rientra in un ritualismo opprimente, sacrificato all’astrazione dell’“armonia” (un concetto centrale nel pensiero cinese). Nella scena centrale del film l’imperatore spiega come il tavolo rotondo e la terrazza quadrata simboleggino Cielo e Terra, che devono armonizzarsi. E’ un’allegoria della rottura dell’armonia quando, alla fine del film, il tavolo rotondo - il Cielo - è sfregiato dall’acido della pozione velenosa; ma sui titoli di coda vediamo lo stesso grande tavolo variamente rinnovato. Il Cielo è eterno e immutabile, la Terra è pervasa di rivoluzioni.
Nei suoi wuxiapian storici Zhang Yimou non ha eliso l’emozione ma l’ha declinata in modo diverso a seconda dell’angolatura narrativa. I due poli dei suoi wuxia sono la Ribellione e la Legge (l’uno presente nell’altro, come Yin e Yang). In “Hero” ha mostrato la Ribellione che penetra nel palazzo della Legge e alla fine si sottomette ad essa. Ne “La Foresta dei Pugnali Volanti” si è situato interamente nel territorio della Ribellione e delle emozioni. Ne “La Città Proibita” mostra la vita raggelata sotto l’imperio della Legge e come la Ribellione nasca al suo interno.
Dopo “Hero”, c’informa Federico Rampini (“Il secolo cinese”), Zhang è stato bollato negli ambienti del dissenso come una Leni Riefenstahl cinese, un autore di regime. E’ una sciocchezza polemica; in realtà, Zhang è sempre stato confuciano (bastava guardare “La storia di Qiu Ju”, del lontano 1992, per capirlo). E’ invece giusto avvicinarlo a Leni Riefenstahl sotto l’aspetto formale, e ciò risalta nel presente film più che in qualsiasi altro: la monumentalizzazione delle masse: l’uso delle masse umane in senso plastico in stretto collegamento con l’architettura (a differenza della grande documentarista tedesca, a Zhang non occorre neppure una folla di nazisti obbedienti: ha la computer graphics). Qui, nella grande pagina degli eserciti contrapposti, esplode quel colorismo che attraversa il cinema di Zhang Yimou da “Sorgo rosso” in poi.
Davanti a “La Città Proibita” vien naturale pensare a Shakespeare. Certo è
sbagliato l’atteggiamento etnocentrico per cui pare che i cinesi dovessero aspettare Shakespeare per dipingere sanguinose tragedie storiche, intrighi e tradimenti all’ombra del trono. Ma in effetti “La Città Proibita” è shakespeariano: nella sua vicenda dinastica di avvelenamenti, congiure e ribellioni, vibrano quel pathos e quel destino tragico di cui il Bardo è stato in Occidente cantore ineguagliato. L’Imperatore, in cui si fondono l’egoismo e la ragion di Stato; l’Imperatrice, che congiura prima per politica e poi per salvarsi; i tre principi dal diverso animo: cinque figure di alta dimensione tragica, destinati alla caduta non a causa di un Fato implacabile ma (scespirianamente) di un destino ch’è il risultato inevitabile delle forze contrapposte e delle debolezze individuali. Vale anche per l’Imperatore, che rimane trionfatore su un mare di rovine, in cui periscono anche quei motivi statali e dinastici che muovevano la sua operazione machiavellica. Il pianto sopra il cadavere del figlio è il suo momento di massima umanità; come in Macbeth, la spietatezza non ha spento la scintilla della grandezza in lui. Per questo Zhang Yimou affida la sua parte a un grande attore eroico - e tragico - come Chow Yun-fat. Mentre Gong Li nel ruolo dell’Imperatrice disegna forse la figura femminile più complessa e drammatica di una stupenda carriera.

(Il Nuovo FVG)

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