Brad Bird e Jan Pinkava
“Ratatouille” (da cui il friulano “ratatuie”, certamente parola entrata con l’invasione napoleonica): un piatto misto di verdura; ora, anche uno splendido cartoon in animazione digitale di produzione Pixar. Diretto da Brad Bird e Jan Pinkava, narra la carriera parigina di Remy, pantegana appassionata di alta cucina, che usando come “schermo” umano l’impacciato Linguini riesce a diventare un grande chef. Questa epopea di un ratto innamorato della sinfonia dei sapori innalza la bandiera dello slow food contro il fast food in modo mille volte più garbato e convincente che lordure di celluloide come “Supersize Me”.
La Pixar incrocia sempre una particolare attenzione al racconto con l’eccellenza sul piano grafico. Anche in “Ratatouille”, basta vedere la precisione degli ambienti (in un cartoon digitale non ha più senso parlare, come si faceva prima, di “sfondi”); l’autenticità dei movimenti (le arrampicate del ratto sui tubi!); le scene di massa - è il caso di dirlo - dei ratti, con quel loro brulicare che sembra di sentirseli vicini; il realismo dei dettagli minimi come la pelliccia dei topi (non tanto Remy, che è una pantegana particolarmente pulita, quanto il padre e il fratello). Ma in primo luogo le espressioni. Quelle di Remy sono di un’autenticità umanizzata impressionante. Il capolavoro è quando, imprigionato nella bottiglia, dialoga a gesti con Linguini - persino un attore umano raramente è stato tanto espressivo quanto, nella scena, questo disegno in computer graphics.
C’è un grande momento sperimentale allorché il film, per rendere graficamente gli orgasmi palatali di questa pantegana gourmet, si lancia in una visualizzazione del gusto in forma di disegni astratti che compaiono sul fondo nero alle sue spalle. Bellissima soluzione di sinestesia, che ricorda le astrazioni del disneyano “Fantasia” (1940) allo scopo di “disegnare” la musica. Da segnalare, poi, anche l’omaggio ai vecchi tempi dei cartoon nei titoli di coda: che dall’animazione computerizzata passano al cartone animato bidimensionale ricreando un raffinato stile anni ’50, pittorico e semiastratto, memore del modernismo delle produzioni U.P.A. di John Hubley e dei disegni di Ralph Steadman.
Eppure, al di là del valore della realizzazione grafica, quello che fa la grandezza di “Ratatouille” è l’intelligenza sfavillante del racconto. Il film è una commedia viva e divertente, tenera e buffa - di un buffo che, pur essendo mosso e vivace quanto occorre, tiene più della “screwball comedy” dei film dal vivo che non della comicità tradizionale dei cartoni animati. Non mancano omaggi e citazioni, naturalmente, da “Rocky” a Audrey Tatou; e per inciso (giacché la Disney ha comprato la Pixar nel 2006, dopo una lunga e burrascosa collaborazione) possiamo osservare che l’improvvisa scena horror dei topi morti che pendono nella vetrina, visti in soggettiva nell’oscurità e nella tempesta, appare come un perfetto soprassalto di gotico disneyano.
Il dialogo è brillante (grande il racconto confidenziale dei segreti del cuoco Horst). Il racconto è ben strutturato sul piano narrativo, e non manca di spessore: l’anticonformista Remy si potrebbe definire un “Gabbiano Jonathan Livingston” delle pantegane, ma il suo rapporto col padre ha un elemento, quieto e implicito, di profondità che il modesto romanzo di Richard Bach non raggiunge mai. Da quella robustezza narrativa che caratterizza la Pixar viene al film la sua ricchezza di sottotesti. Fra essi il più importante è legato alla figura del cupo critico gastronomico Anton Ego (cui nell’originale dava voce Peter O’Toole): che mentre all’inizio sembrava la solita marionetta di “villain” secondario (il primario essendo il capo-chef Skinner), assume nello sviluppo un’imprevista risonanza; fino ad enunciare verso la fine una riflessione autocritica sul proprio mestiere (qui critico gastronomico, ma vale anche per quelli cinematografici!) ch’è tutt’altro che banale, e anzi merita riflessione in verità.
(Il Nuovo FVG)
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