Ermanno Olmi
La biblioclastia (la distruzione dei libri) è sempre stata una tentazione ricorrente nella lunga storia dell’umanità per numerosi semplificatori. Dal famoso califfo dell’episodio semileggendario della Biblioteca di Alessandria, “per li rami” arriviamo a Raz Degan, professore di filosofia che nottetempo inchioda a terra codici e incunaboli di una biblioteca in “Centochiodi”, scritto e diretto da Ermanno Olmi. E spiega al maresciallo dei carabinieri che tutto sommato i libri hanno solo aumentato la confusione anziché risolvere i problemi, e che “tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”.
Qui si potrebbe osservare che Olmi confonde i libri con le persone: un libro, a parte la sua bellezza come oggetto, è solo un contenitore, un modo di salvare e riportare una voce; e la confusione delle voci è inevitabile, nella faticosa storia di miliardi di creature litigiose. Però non vogliamo cadere nella trappola del contenutismo. Ermanno Olmi ha tutto il diritto, al cinema, di inchiodare tutti i libri che vuole, tanto più in un film dalle pesanti caratteristiche simboliche - Raz Degan in tutto il film è insistentemente assimilato a Cristo; è interessante che nella scena biblioclastica i chiodi che usa siano uguali a quelli tradizionali dell’iconografia della crocifissione, somiglianza raddoppiata sul piano del linguaggio cinematografico per il modo in cui Olmi riprende la scena; è come un’inversione della crocifissione, corrispondente alla protesta di Cristo contro suo Padre che non l’ha salvato, nel colloquio col monsignore a fine film.
Ermanno Olmi, dicevamo, ha tutto il diritto di inchiodare libri. Argomento della critica non sono le sue opinioni ma la sua capacità di comunicarle efficacemente allo spettatore, ovvero il modo in cui le traduce sul piano artistico. Ed è qui che il film di Olmi risulta dolorosamente inferiore alle sue ambiziose premesse. In realtà “Centochiodi” è un film di plastica. C’è nella realizzazione una mediocrità espressiva che si risolve in un ammiccare kitsch allo spettatore, al quale sciorina sotto gli occhi una pseudo-profondità simbolica che è orpello; e c’è un’incapacità della sceneggiatura a tradurre in un testo convincente le idee e gli umori, sostituendolo con l’enunciazione solenne di battute retoriche (come quella del caffè) che ricordano gli spot pubblicitari. Nel film si cita Karl Jaspers ma la filosofia di base è quella di Toto Cutugno.
In Olmi si sono sempre combattuti due principi contrastanti, dei quali sarebbe possibile segnalare la prevalenza dell’uno nella prima parte della sua carriera e il progressivo allargarsi dell’altro in seguito. Da un lato, un’essenzialità toccante (di cui in “Centochiodi” sono testimonianza residuale i primissimi piani di volti di gente del fiume); dall’altro, una tendenza al kitsch, che rode dall’interno la prima. Che cos’è il kitsch? E’ la facilità - la vuotezza contrabbandata per intensità, il sostituto, l’Ersatz. Perché non v’è nulla al cinema di più fragile della semplicità simbolica; basta un nulla di eccessiva consapevolezza per rovesciarla nel suo contrario: un passo più in là, e siamo al Mulino Bianco.
Fondamentalmente il film di Olmi è un remake intellettuale di “Teorema”, il film di Pasolini del 1968 - che, senza essere necessariamente un capolavoro, gli è cento volte superiore. Come “Teorema”, “Centochiodi” porta sullo schermo il rifiuto radicale. Raz Degan - che per tutto il film mantiene l’espressività di un paracarro - dopo aver inchiodato i libri sparisce e va a vivere in una casa diroccata sulla riva del Po (benché quasi un barbone, appare sempre bellino “comme il faut”). L’ex professore lega solo con gli umili del luogo, e qui, come già osservato, la buona fotografia (di Fabio Olmi) trova nei loro visi i suoi momenti migliori, anche se sul piano della sceneggiatura il film non va oltre un populismo un po’ facile.
Dichiaratamente l’ultimo film di Olmi, “Centochiodi” incrocia cattiva teologia e limitatezza artistica. Un triste tramonto.
(Il Nuovo FVG)
venerdì 18 gennaio 2008
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