Quentin Tarantino
Anche se i ringraziamenti nei titoli di coda del magnifico "Jackie Brown" di Quentin Tarantino terminano con Samuel Fuller ("Thanks for everything")... e il grande regista scomparso l'avrebbe apprezzato, in un film degno di lui, dopo la sfortuna di apparire sullo schermo per l'ultima volta nel brutto "The End of Violence" di Wenders... tuttavia la pellicola cui più fa pensare "Jackie Brown" è un geniale film di Stanley Kubrick del 1956, "The Killing", "Rapina a mano armata".
Gioco a sei facce (da citare almeno le sfavillanti ri/scoperte di Pam Grier, con la sua bellezza di splendida donna di 44 anni, e Robert Forster) a proposito di soldi di provenienza illegale da trasportare, "Jackie Brown" è tutto un tiro a fregarsi l'un l'altro: una vertigine di doppio e triplo gioco in cui lo spettatore è all'oscuro, spiazzato. Tarantino, regista e sceneggiatore, realizza in questo thriller la vera focalizzazione esterna: vediamo (a pezzi) quello che succede, ignoriamo più che mai i pensieri e i calcoli dei protagonisti. Il bellissimo gioco registico di stacchi e dissolvenze non è finalizzato alla suspense nel senso usuale del termine, non crea l'incertezza su come progredisca l'azione verso il finale, bensì getta oscurità.
Già il senso del tempo avvolgente e martellante poteva ricordare "The Killing", ma è per un altro motivo che esso va citato: nel climax con la consegna della borsa, vediamo tre volte la stessa scena, rivedendola prima dal punto di vista di un altro personaggio, poi di un altro alcora. Proprio come nel film di Kubrick, il tempo narrativo ritorna circolarmente su se stesso per ampliare la nostra visione e costruire la nostra comprensione dell'accaduto.
Questo racconto circolare e frammentato, scandito da didascalie-titolo, è narrato da Tarantino con bella libertà linguistica (compreso uno "split-screen" alla De Palma), ben supportata dall'ammirevole montaggio di Sally Menke. Ritroviamo in "Jackie Brown" l'ambiguità completa e vitale degli imprevedibili personaggi tarantiniani, fra i pochi che riescano a darci al cinema (vedi qui Robert De Niro ad esempio) l'assolutezza della sorpresa: che in Tarantino si esprime volentieri in uno sparo, imprevisto ed esplosivo come una gag. Non dimentichiamo però che Tarantino non è, come vorrebbe la sua nomea, "quello delle sparatorie". La grandezza de "Le iene", per esempio, non attendeva l'evidenza del sangue ma già emergeva nel semplicissimo, stupefacente dialogo in pizzeria che apriva il film. I dialoghi di Tarantino hanno sempre una freschezza, un tono d'"impromptu", una risonanza reale che incanta. Certo il regista sa portare come pochi altri la violenza sullo schermo; ma prima di ciò, il vero Tarantino si trova in un momento di sospensione allo squillo del telefono, in una conversazione sulla perdita dei capelli, si trova nei discorsi e negli sguardi fra Robert Forster e Pam Grier (una storia d'amore sottinteso, d'un romanticismo duro, davvero alla Fuller). La scena in cui lui la vede per la prima volta nel buio è di un romanticismo addirittura monumentale.
Dopo che s'è conclusa la tensione su vivere o morire, il film si sviluppa imprevedibilmente sulla suspense dell'amore: l'offerta di Jackie Brown al suo "socio" - lo sguardo di lui che la segue mentre parte in macchina - l'indimenticabile fuori fuoco che avvolge Robert Forster mentre si addentra nel suo ufficio e si ferma a riflettere - il lungo primissimo piano di Pam Grier mentre guida, ultima immagine che vediamo prima del "nero" dei titoli di coda. Si rinuncia così all'amore, per stupidità e per stanchezza...
(Il Friuli)
venerdì 18 gennaio 2008
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