Francis Ford Coppola
C’è una bella immagine verso la fine del nuovo film di Francis Ford Coppola “Un’altra giovinezza” (dal romanzo di Mircea Eliade), quando il protagonista Dominic infrange lo specchio così uccidendo il suo “doppio”, e vediamo l’immagine di quest’ultimo scivolare giù moltiplicata nei frammenti che cadono. Paradossalmente, quest’immagine può valere come metafora del non riuscito film di Coppola. Che è una congerie di frammenti: alcuni brillanti e notevoli, altri così piatti da apparire indegni dell’autore di “Apocalypse Now”. Né questi frammenti riescono a fondersi in un tutto; ecco perché “Un’altra giovinezza” non si può definire nemmeno una perla barocca, uno di quei film “sbilenchi”, falliti ma affascinanti, che magari diventano i preferiti di chi ama l’autore.
Il difetto base sta nella sceneggiatura dello stesso regista-produttore, che si può definire solo impacciata nel suo tentativo di materializzare l’eccentrico fluire del romanzo di Mircea Eliade (ci sarebbe voluto Greenaway, o Raul Ruiz). In realtà Coppola come narratore è legato a una concezione narrativa “forte”, strutturata. Viene in mente l’importanza che riveste in lui – penso alla saga del “Padrino” – una forma artistica ottocentesca come il melodramma. I suoi più famosi adattamenti letterari vengono da testi “di confine” del romanzo ottocentesco, come “Cuore di tenebra” di Conrad e “Dracula” di Stoker. E’ a partire da un testo base compatto che meglio si esplica la sua capacità di ampliamento del testo fino a comprendere la soggettività e il delirio. Il romanzo di Eliade è invece liquido e sfuggente, quasi uno “stream of consciousness” di suggestioni culturali e incubi intellettuali (viene in mente Borges), non privo di una sottile ironia. Coppola sembra volerlo “razionalizzare”. E’ solo inevitabile a questo punto che si volga a un mito ottocentesco, e poi cinematografico, quale la liberazione violenta dal proprio doppio. La rottura dello specchio da parte di Dominic è strettamente imparentata con il colpo di pugnale che Dorian Gray vibra al proprio ritratto in Oscar Wilde.
Non è questione di fedeltà al testo (che peraltro il film rivendica), ma del fatto che il necessario lavoro di drammatizzazione e condensazione è svolto con evidente fatica. Vedi la pesantezza con cui è gestita l’ambiguità della “signorina della camera 6” (e nel primo incontro con Dominic il dialogo è credibile nel romanzo, ridicolo nel film, dove Coppola ha già voluto farci sapere tutto, con una mania esplicativa che ricorda la fiction tv italiana). Vedi l’apertura piattamente illustrativa della seconda parte, con l’incontro con le due donne in montagna: se il romanzo di Eliade giocava sul discorso indiretto e sul piuccheperfetto, Coppola si sente costretto a riportarlo goffamente al “racconto primo”. Ora lascia imprecisati dei punti nodali (per esempio l’oscura concezione di una potenza che dall’alto determina la vita di Dominic), ora condensa in modo (aspirante) realistico gli episodi - solo che qui “realistico” si traduce in “romanzesco”: vedi l’unificazione di parti dello svolgimento sotto il segno para-spionistico del nazista Rudolf, con tanto di ridicolaggine melodrammatica della bellona innamorata che si sacrifica.
Ha senza dubbio valore, e l’ha segnalato (forse con qualche sopravvalutazione) molta critica, l’elemento visionario presente nel film: il ritornante rovesciamento onirico degli assi cartesiani della visione (nella sequenza con la bella spia, rinforza un fascino erotico che solo redime questo segmento mediocre e affrettato); la scissione - in immagini sorprendenti - fra Dominic e la sua immagine nello specchio (nel romanzo il “doppio” è interno alla mente); la sequenza della regressione temporale di Veronica/Rupini, che produce un autentico brivido d’orrore. Più in generale nessuno nega che Coppola rivesta di bellezza visuale le sue immagini. Se ne potrebbero fare molti esempi; ma tutta questa bellezza visuale non cancella l’impressione di un colpo mancato.
(Il Nuovo FVG)
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