Benedetto Parisi
Presentato in anteprima nazionale al Visionario di Udine (dopo aver partecipato al premio documentaristico Libero Bizzarri), il bellissimo e commovente documentario di Benedetto Parisi “The Time of Her Life” racconta in una lunga intervista corredata dalle sue foto la vicenda della fotografa scozzese Lesley McIntyre e di sua figlia Molly, nata con una grave anomalia muscolare diagnosticata dai medici fin dalla nascita, costretta alla carrozzella e morta a 14 anni. In un libro dallo stesso titolo Lesley aveva raccolto le immagini del “tempo della vita” di sua figlia: una vita a orologeria - ma durante la quale la madre l’ha tenuta fuori dagli ospedali, battendosi per farle frequentare la scuola, portandola al mare e ai parchi e insomma garantendole la vita più normale possibile. Nell’incontro col pubblico del Visionario ha raccontato di essere diventata addirittura “unpopular” presso alcuni a causa di questa sua lotta. Non solo la sua carriera ma anche il suo matrimonio è crollato, e lei ha condotto la sua battaglia da sola. Dice nel documentario: “Molly divenne il mio lavoro”.
“The Time of Her Life” è un film sulla memoria; è appropriato che abbia inizio con il trasloco di Lesley – perché un trasloco è una specie di “liberi tutti” dei ricordi, c’è un senso di ritrovamento, ove le memorie non è che vengano dissepolte (perché mai si sarebbero dovute dimenticare?) ma certo assumono una nuova voce, man mano che riemergono dagli involucri (poi spesso, non dico qui, riappaiono dal più impervio degli involucri: l’abitudine dello sguardo). Gli oggetti che emergono dalle casse – la tenerezza di un uccello costruito a scuola, la drammaticità di un busto ortopedico – ci dicono: è un film sulla memoria e sulla morte. Eppure, apparente contraddizione, questo film sulla morte è pervaso da un radicale vitalismo. Qui occorre un’osservazione ovvia, ma irrinunciabile: noi viviamo in una civiltà che ha messo la morte fra parentesi, l’ha sottoposta a un’opera di rimozione; ma se una società non riesce più a parlare della morte, succede che non riesce più a parlare neanche della vita. Questo legame, invece, il documentario (ma prima ancora del dispositivo, la saggia umanità di Lesley McIntyre) lo esprime appieno. Ciò che in primo luogo Lesley ha dato a sua figlia è la volontà di vivere.
La peribilità del corpo esalta l’intensità, no, meglio, la presenza imperiosa, della vita. Una sorta di metafora oggettiva di questa vitalità, indomabile benché transeunte, credo si debba vedere nel mondo vegetale, che è molto presente nell’opera. Giustamente Parisi quando ci mostra la bellezza delle scogliere del Galles, dove Lesley non senza fatica portava Molly, si sofferma sulla macchia viola dell’erica abbarbicata. Lesley racconta di essersi dedicata per tre anni al giardinaggio per affrontare la morte di Molly: “letteralmente ti radica”. E’ per questa irriducibile accettazione della vita che, racconta la madre, “Molly usava ogni opportunità che ritrovavo per lei”; è per questo che a 14 anni Molly è “very angry”, furente, di morire (vengono in mente i versi, non disperati ma possenti e vigorosi, di Dylan Thomas: “Do not go gentle into that good night. / Rage, rage against the dying of the light”).
E ancora, vedremo una materializzazione di questo spirito vitale nelle foto di Lesley McIntyre: ce n’è una presa al mare, con Molly distesa schiena in alto a braccia aperte, dove quella “fragilità” del corpo della figlia, di cui Lesley ci ha parlato (e di cui abbiamo visto come testimonianza il suo busto), si trasforma in una strana bellezza; quella dolorosa magrezza delle braccia si dissolve in una grazia extraumana che fa pensare a un anemone di mare. Se la fotografia del corpo umano oscilla in genere fra i due campi del corpo sano (o sessuale) e del corpo doloroso (o barocco), qui non si situa nell’uno né nell’altro. Lo stesso si può dire, evidentemente, per il documentario emozionante e profondamente umano che riporta con vera “pietas” questa storia di due eroismi gemelli.
(Il Nuovo FVG)
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