Steven Spielberg
Chiusa fra due immagini identiche della bandiera americana in controluce, la struttura di "Salvgte il soldato Ryan" è geometrica: apertura sulla cornice contemporanea, prima sequenza di battaglia, viaggio della pattuglia alla ricerca del soldato Ryan, seconda sequenza di battaglia, chiusura della cornice. Però lo svolgimento non è circolare - il che contraddirebbe l'umanesimo spielberghiano - bensì spiraliforme. Il viaggio (iniziatico) della pattuglia è la comprensione di una necessità.
"Ma questo Ryan deve valerlo!". La domanda capitale del film, che si pongono i soldati e pure Ryan stesso quando lo trovano, è: perché fra tanti sofferenti proprio il soldato Ryan dev'essere salvato? E' centrale, nello svolgimento dialettico dell'altissimo film di Spielberg, lo sviluppo del concetto di "merito": prima espresso in forme semi-mitiche (deve diventare un grande inventore o simili) nelle prime discussioni nella pattuglia, attraverso le ultime parole di Tom Hanks (il capitano Miller) a Matt Damon (Ryan) dopo la battaglia, che sono semplicemente "Méritatelo", fino alla chiusura con Ryan vecchio (Harrison Young) che - in uno dei momenti più umani e solenni di un decennio di cinema americano - interroga implorante la moglie: "Dimmi che sono un brav'uomo". Non è un'invenzione che merita la salvezza, è tutta una vita. Per questo il racconto è inserito in flashback dentro una cornice contemporanea, che richiama direttamente "Schindler's List"; serve a dirci che l'argomento di "Salvate il soldato Ryan" è lo stesso: chi salva una vita salva l'intera umanità.
Spielberg sottolinea sempre lo "sguardo di scoperta"; qui, anche se si tratta di un film corale, è in primo luogo lo sguardo insieme professionale e orrificato di Tom Hanks: un orrore che emerge esternamente nel tremito delle mani e internamente nei brevi momenti di shock "dentro" i quali ci porta soggettivamente il film. Ora, in "Salvate il soldato Ryan" lo sguardo spielberghiano coglie la crudeltà della guerra con forza quasi inedita; e non penso solo alle viscere fuori dai corpi squarciati, ma a un "farsi feroci" perr cui si spara ai nemici arresi o feriti; per non dire del dolore delle madri (la pregnanza di quell'inquadratura con la madre che si accascia a terra intuendo nell'arrivo dell'auto la notizia della morte dei figli). Eppure non è un film antimilitarista ma umanista: si fonda sul concetto di sacrificio - una vita per una vita - e questo sacrificio pone un concetto di necessità che si allarga alla guerra intera, eslicitato nelle parole di Lincoln, e simboleggiato nella bandiera che apre e chiude il film.
Il movimento dialettico del film determina l'evidente diversità fra le battaglie iniziale e finale. Questa diversità non è solo narrativa (con la battaglia finale il film arriva con ammirevole chiarezza a uno sviluppo, prima negato, che vorrei chiamare romanzesco: il compito impossibile da assolvere contro tutto e contro tutti), ma anche - genialmente - linguistica. Infatti nella prima battaglia troviamo la dimensione orizzontale dello sguardo. Spielberg riproduce mirabilmente una contemporaneità della ripresa: macchina a mano, lenti d'epoca, colori stinti, macchie di sangue sulle lenti. L'esserci nella sua forma bruta, la battaglia come caos. Nella seconda battaglia, lo sguardo è verticale, onnisciente. Qui Spielberg organizza i mezzi del cinema contemporaneo (che, non scordiamolo, coincidono con la sua biografia). Se nella prima battaglia l'occhio dello spettatore coincide con la macchina da presa del cameraman-soldato (attraendo per analogia le immagini di focalizzazione onnisciente come i soldati sott'acqua), nella seconda coincide con la macchina da presa del regista Spielberg, suprema istanza ordinatrice.
Dopo questa crescita linguistica del racconto, il ritorno al presente nel cimitero militare. La spirale di "Salvate il soldato Ryan" è una spirale nel dolore. Come in "Schindler's List" (o "L'impero del sole"), la memoria non attuisce, ma purifica quel dolore attraverso la trasparenza del tempo.
(Il Friuli)
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