Marc Lawrence
L’idea migliore di “Io sono leggenda” è all’inizio: l’ironica risposta visuale alle parole della dottoressa che per curare il cancro ha inventato un virus geneticamente modificato, e ne parla in tv paragonandolo a un’auto potentissima guidata in autostrada da un poliziotto anziché da un uomo cattivo. Lo stacco a 3 anni dopo (quando il virus ha ammazzato quasi tutti, trasformato i sopravvissuti in zombi e distrutto la civiltà) mostra auto abbandonate in un’autostrada allagata.
Dopo di che, il film di Marc Lawrence precipita progressivamente. Robert Neville (Will Smith), un sopravvissuto immune che ha perso moglie e figlia durante l’evacuazione, gira per una New York deserta con la sua cagna Sam; al tramonto si affretta a tornare a casa perché di notte vagano orde di zombi fotosensibili. Cerca senza successo di trovare un vaccino in laboratorio. Comincia a perdere il contatto con la realtà e parla ai manichini dei negozi vuoti.
Tutto quanto fa la grandezza del superbo romanzo fantascientifico di Richard Matheson da cui il film è tratto… la cupa drammaticità, il senso di claustrofobica solitudine di Neville, la sua disperata guerra privata contro i vampiri… va perso nell’ordinaria e stravista “action” umano-contro-supermostri del film, dove tra l’altro gli zombi, pur aggressivi e velocissimi, non sono particolarmente spaventosi (del resto la CGI del film non è il massimo). Si perde anche l’aspetto più angoscioso del romanzo di Matheson, quello dell’assedio – visto che qui Will Smith si nasconde e quando gli zombi scoprono dove abita è finita. Neanche dirlo, in questi tempi di neopuritanesimo, manca il riferimento mathesoniano al desiderio sessuale di Neville dopo anni di astinenza (salvo vaghe allusioni: i manichini, un nudo incorniciato in una casa). Senza dubbio, è spettacolare questa New York abbandonata, popolata di cervi e leoni. Però anche queste immagini hanno un interesse visuale più che una drammaticità intrinseca: vogliamo paragonarle ai grandi film apocalittici fra i ’50 e i ’60?
Invero, “Io sono leggenda” serve soprattutto a confermare la mediocrità dell’attuale generazione di sceneggiatori americani, qui Mark Protosevich e Akiva Goldsman. Il film colleziona implausibilità, forzature, oscurità (da dove viene la trappola in cui resta preso Neville? E’ una delle sue o un omaggio degli zombi?), “loose ends” (quando la moglie di Will Smith risulta positiva al controllo durante l’evacuazione, lui lo fa ripetere e lei passa, diciamo: ah, dunque lei si inzombirà sull’elicottero provocando l’incidente mortale - invece, finita lì). Di peggio in peggio, si arriva alla stupidità assoluta della scena in cui Neville dà di matto con la ragazza; per non dire dei discorsi deliranti di quest’ultima su Dio. Come sempre al cinema, l’implausibilità non sta nell’idea in sé ma nel modo goffo in cui essa viene realizzata.
E’ interessante dal punto di vista socioculturale la conclusione col villaggio dei superstiti dietro il recinto: puro “American Gothic”, con la chiesetta eccetera, materializza sullo schermo una sorta di nostalgico sogno di rinchiudersi in un mondo ideale del passato. Il tutto messo in scena senza un filo d’ironia. Le parole conclusive poi comportano il rovesciamento totale del testo di Matheson. Nel romanzo, “Io sono leggenda” perché, in un mondo in cui i mostri sono la popolazione, è l’ultimo essere umano a essere il mostro. Nel film, “Lui è leggenda” (detto in voce over) perché ha trovato la cura. L’aspro relativismo di Matheson è stato trasformato nella targa su un monumento.
A parte l’ovvio influsso su George A. Romero, questo romanzo era già stato portato sullo schermo nel 1963 (“L’ultimo uomo della terra”, con Vincent Price) e nel 1971 (“1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra”, con Charlton Heston) – più il tv movie “I Am Omega” nel 2007. Un consiglio: se volete vederne la “vera” versione, compratevi il dvd Ripley’s de “L’ultimo uomo della terra”, ottimamente curato da Silvia Moras, e dimenticatevi di Will Smith.
(Il Nuovo FVG)
sabato 26 gennaio 2008
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