domenica 3 febbraio 2008

American Gangster

Ridley Scott

Asciutta cronaca in montaggio parallelo dell’incrociarsi delle vite del padrino nero Frank Lucas (importatore di eroina dall’estremo Oriente dentro le bare dei caduti americani in Vietnam) e del poliziotto Richie Roberts (che lo cattura e lo convince a parlare, epurando la corrottissima polizia newyorkese), “American Gangster” di Ridley Scott è un “gangster movie” dalla potente costruzione visuale – non dimenticheremo i grigi azzurrini di New York nella fotografia di Harris Savides (“Zodiac”, “Elephant”) – e narrativa. Per esempio, il pedinamento in auto è bello al pari di “French Connection” di Frankenheimer, film al quale si paga omaggio nel dialogo (inutile poi elogiare la superba sequenza dell’irruzione).
Ridley Scott, si sa, ama centrare i suoi racconti su un dualismo, una polarizzazione. Due personaggi (ottime interpretazioni di Denzel Washington e Russell Crowe, una giocata sui muscoli del viso e una sugli occhi, una sul rigido e una sul molle) si contraddicono e si confrontano. Ambedue portano negli occhi il dolore di chi “ha visto”, altro discorso presente in tutto il cinema di Scott; e questa terribilità del vedere, come accade spesso in Scott, è declinata al passato: il film implica un doppio “già accaduto” della visione irreparabile. Lo esteriorizza solo Frank, col racconto della morte del cugino, ma la vediamo scritta pure negli occhi dell’introverso Richie: ha fatto troppo, ha rischiato troppo, si è sbattuto troppe volte fra poliziotti corrotti per i quali un collega onesto è un “lebbroso”.
Il film traccia continui, eleganti, a volte barocchi legami fra i due. Ciascuno dei due segue, per vie diverse, un percorso di promozione sociale (Frank da autista del boss a boss, Richie da poliziotto ad avvocato). Ciascuno dei due ha una sua integrità contraddittoria. Richie è di un’onestà quasi masochistica e sacrificale, ma combinata con una vita familiare disordinata fra donne e guai. “Finirai nello stesso inferno di quei poliziotti corrotti che non sopporti”, gli grida l’odiosa moglie all’udienza di divorzio - ed è interessante chiedersi se sia il disordine esistenziale o non piuttosto quell’onestà per cui evita di appropriarsi di un milione di dollari che gli rimprovera la moglie “bitch” (c’è un’intuizione in proposito nel film, ma poi risolta un po’ facilmente in un’autocritica “sexually correct”). Frank è l’uomo che la domenica va alla chiesa battista con la madre, ma la sua ricchezza viene dall’eroina purissima di cui inonda le strade. “Onestà, integrità, duro lavoro e famiglia”, predica ai suoi fratelli, né si rende conto della contraddizione (grande la sua aria di stupita delusione quando il nipote rinuncia a una carriera nel baseball dicendogli “Voglio essere come te”). Richie e Frank sono ambedue incarnazioni di una stessa “coscienza infelice”, scissa e spezzata, ch’è quella dell’America.
“American Gangster” - l’opera più importante di Ridley Scott dai tempi de “Il gladiatore” - è dunque un altro di quei film che materializzano sullo schermo il Grande Romanzo Americano: al di là della vicenda si dipinge in prospettiva il quadro di un’intera società, e la critica di essa. Frank, che realizza il sogno americano del “self made man”, è un imprenditore; la lavorazione della droga (compiuta da donne nude, a scanso di furti) e lo smistamento sono descritti in termini di catena di montaggio; il suo litigio col distributore che ha alterato le dosi di “Blue Magic” è un perfetto discorso imprenditoriale sulla fiducia pubblica nel logo: “Fai una violazione del marchio di fabbrica, capisci?” Del resto, anche l’episodio della megapelliccia – causa la quale si fa notare, e che poi brucia - non è solo mimetismo gangsteristico, basso profilo; possiamo vedervi un lontano barbaglio di calvinismo secolarizzato.
E la guerra del Vietnam che rimbomba ossessivamente dai televisori, sicché ne vediamo, lungo l’arco del film, l’intera storia, vale come una sorta di controcanto della loro vicenda. Il Sogno Americano in un’epoca impazzita.

(Il Nuovo FVG)

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