Tim Burton
Se si può affermare che “La sposa cadavere” di Tim Burton (co-regista Mike Johnson) è uno dei film più importanti del 2005, non è solo per l’eccellente lavoro di animazione, una certosina realizzazione con pupazzi mossi a passo uno, dove la perizia tecnica e artistica dà una commovente intensità ai visi e una sorprendente fluidità ai movimenti. Soprattutto ciò serve a un’illustrazione umanissima, mirabilmente viva e patetica, del romanticismo burtoniano.
Mix di umorismo sfrenato e di straziante mélo, “La sposa cadavere” è un magnifico musical macabro (una nota di merito per Fabrizio Emigli, autore degli adattamenti italiani delle canzoni di Danny Elfman; “la nostra piccina / con quel muso da faina” è delizioso) - nonché ovviamente una “summa” del cinema di Burton, uno dei più coerenti del panorama americano. Tim Burton, si sa, ha sempre sentito la fascinazione della morte e dei cadaveri, da cui provengono al film superbe gags. Nel suo cinema - fatto di rovesciamenti dimensionali, di confusione dei limiti, in cui si scambiano il sopra e il sotto, il dentro e il fuori - è un tema fondamentale quello dell’esclusione, della barriera; e quale barriera è più radicata di quella che separa dai morti dai vivi?
La fonte del film, ci viene detto, è una fiaba russa; però il concetto (l’anello nuziale messo per scherzo al dito di qualcosa d’inanimato, che si anima e pretende il mantenimento della promessa) è diffusissimo, e per esempio sta alla base del famoso racconto di Mérimée “La Venere d’Ille”. Burton, coi suoi sceneggiatori, lo arricchisce col proprio consueto repertorio di omaggi e citazioni (in realtà, attivazioni di una memoria culturale di massa); d’obbligo menzionare quella, di comicità inimitabile, da “Via col vento”; ma una di esse in particolare ha valore fondante, ed è la canzone con danza degli scheletri quando Victor si ritrova nel mondo dei morti. Il riferimento è ovviamente alla “Silly Symphony” di Walt Disney “Skeleton Dance” del 1929 (ma la regia ricorda anche la scena delle allucinazioni di “Dumbo”). Essa sta alla base del film col suo doppio concetto di una vita d’oltretomba festaiola e musicale e dello scheletro come corpo scomponibile e ricomponibile. Il corpo smontabile è un’altra delle ossessioni di Burton; lo scheletro che allegramente va in pezzi e si rimonta è il suo approdo logico definitivo (del resto basta guardare il cagnetto-scheletro Briciola, che viene regalato a Victor a pezzi in una scatola, esattamente come un kit).
Parlare di esclusione ci porta a un altro tema base del cinema di Burton, il sentimento adolescenziale di sentirsi rifiutati. Lo incarnano i fidanzati Victor e Victoria (la commedia omonima non c’entra; “Victor” è l’omaggio di Burton agli amati film di Frankenstein, “Victoria” è per marcare la sua caratteristica di duplicazione di Victor, egualmente gentile e sognatrice). Sono tipiche figurine burtoniane, “elfiche”, come spesso vien da scrivere, timide, isolate, sognanti; al pari di Emily, la sposa cadavere - epitome e capintesta del mondo dei morti, i classici mostri gentili dell’autore.
Tutto il cinema di Burton è una rivolta contro i valori dominanti, quelli della borghesia americana d’oggi come quelli vittoriani di ieri. Qui, con tocco geniale, la contrapposizione fra il mondo dei vivi, egoista e arido (l’incipit del film serve a porre il concetto alienante della città meccanica), e il mondo dei morti, festoso e pieno di calore e gentilezza, si trasforma in un’opposizione di colori. Il mondo dei vivi è grigio, tutto fatto di colori smorti all’estremo; il mondo dei morti è un trionfo di colori caldi, turchese, rosso, viola, verde, arancione. Così, l’irruzione finale dei morti nella città dei viventi è il perfetto film di zombi, nel senso che mette traumaticamente a contatto i due mondi - anche se risulta in una poetica rappacificazione. Tim Burton è lontanissimo dall’ironia dissolvente del tardo Novecento; la sua concezione narrativo-morale è apertamente romantica. Anche per questo lo amiamo.
(Il Nuovo FVG)
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