Claude Chabrol
Ottima regia e cattiva sceneggiatura: in questa contraddizione si brucia l’ultimo film scritto e diretto da Claude Chabrol, “L’innocenza del peccato” (sciocco titolo italiano per “La Fille coupée en deux”). Perché indubbiamente la regia è assai buona; sul piano narrativo il montaggio è splendido, con quei bellissimi stacchi, così bruschi. Anche a livello di sceneggiatura la prima parte va senz’altro bene. E’ la parte della seduzione: l’anziano Charles, scrittore famoso e donnaiolo, si porta a letto l’ambiziosa Gabrielle… o forse è il contrario… che ha un terzo dei suoi anni. Poi la porterà anche in un bar di scambisti dove lei si fa possedere da alcuni uomini sotto i suoi occhi. In seguito Charles (peraltro, l’unico personaggio simpatico del film) fa il cialtrone: parte in viaggio e fa cambiare la serratura. Nota bene: qui si nasconde una storia tre volte più affascinante, la storia della sua paura segreta di unirsi a questa ventenne - ma Chabrol letteralmente non se ne accorge.
E’ quando Gabrielle, depressa per l’abbandono, si lega alla figura mal delineata del ricco psicolabile Paul che il film crolla (le loro scene a Lisbona sono addirittura imbarazzanti); emerge in primo piano quell’aspetto pensato, artificioso, vagamente ideologico ch’è il pericolo costante di Chabrol. Ancora innamorata di Charles, Gabrielle sposa il flippato; Paul uccide Charles per gelosia retrospettiva, perché ha “pervertito” Gabrielle; riceverà una condanna mite in quanto Gabrielle - il cui comportamento nel corso del film è sempre in funzione delle comodità dello sceneggiatore - testimoniando al processo accetta, per così dire, di sputtanare Charles.
Vedendo “L’innocenza del peccato” si direbbe che Chabrol ha fatto un film ambientato al giorno d’oggi perché non aveva i soldi per ambientarlo nel 1950. Lo percorre un forte senso di anacronismo; tanto che mi sono chiesto più volte se all’inizio non ci fosse una didascalia di tempo che mi è sfuggita; solo che i telefonini sono moderni, e comunque, per adeguare il racconto al periodo bisognerebbe risalire all’epoca pre-cellulari. Infatti oggi fare lo scambista non è l’inconfessabile segreto dell’industriale, del maturo scrittore, dell’avvocato di grido - ma dell’impiegato di banca, del funzionario del catasto, dell’edicolante, dell’operaio. L’ha capito Tinto Brass, e non l’ha capito Chabrol? Diavolo, anni fa qualcuno aveva perfino cercato di fondare l’Arci scambisti! (ma l’Arci nazionale disse di no). “L’innocenza” sembra svolgersi in un mondo parallelo, dove c’è la televisione ma non Internet, il telefonino ma non il Viagra, le orge ma non la coca, il sesso ma non l’omosessualità, i matti ma non gli psicofarmaci – e in cui le trasgressioni sessuali fanno la stessa sensazione di una volta (se Chabrol conoscesse Madameweb gli verrebbe un coccolone!). Invero, “L’innocenza del peccato” è un film in costume: giacché i personaggi sono inseriti dentro un costume, nel senso di usanze e morale, che appartiene al passato.
Va detto che Chabrol lavora sempre su un elemento atemporale, un po’ come Agatha Christie; il mondo borghese dei suoi film è una sorta di teatrino extrastorico, una Francia a metà strada fra quella reale e la provincia dei romanzi di Simenon (che però delineano in modo fulminante in uno spazio e un tempo anche senza bisogno di datazione). Il problema è che nel presente film l’ambientazione vagamente irreale introduce una dimensione di anacronismo che per reggere sul piano artistico dovrebbe essere convinto e creativo. Purtroppo qui non è né l’uno né l’altro. I personaggi restano astratti e macchiettistici – a partire dall’insopportabile Paul, sociologicamente improbabile, narrativamente forzato, meccanica rotella di uno svolgimento poco plausibile. I comportamenti sono poco giustificati sul piano narrativo: vale per Gabrielle, vale per sua madre, altra mera rotella della debole costruzione di Chabrol. Il quale, come il suo protagonista, è vecchio. A differenza del suo protagonista, non ama le novità.
(Il Nuovo FVG)
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