Andrew Dominik
“Stava varcando la soglia della mezza età” (34 anni!) dice di Jesse James la voce narrante ne “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” di Andrew Dominik. La voce narrante, che tante volte (specie nel cinema italiano) è un espediente per aggirare l’impegno della costruzione drammatica, in questo film assume il suo valore più vero e profondo: tragica, distaccata, infinitamente saggia perché segnata dalla conoscenza, ci parla col suo stesso esistere del passare del tempo e del suo dolore. Aiuta a declinare al passato il film, western crepuscolare quanto mai (e memore di grandi esempi precedenti a partire dall’Eastwood de “Gli spietati”). In varie sequenze una sfumatura ai bordi dell’immagine, analoga a quella delle vecchie foto, si aggiunge alla voce narrante per dichiarare che questa è una storia di fantasmi. Il tempo è un veleno che ci muta, corrode le credenze e il rispetto: la leggenda non riesce a resistere al tempo finché non viene congelata nella morte.
Nel lirismo dei panorami, le nuvole che corrono accelerate in questi cieli del West evocano il passare veloce e impietoso del tempo, ma altresì formano una cappa che schiaccia la terra. Un senso di oppressione pesa su tutto: tutti fanno la cosa giusta per loro, e per ciascuno non è che miseria. E’ un film di albe fredde, nottatacce, colazioni tese, menzogne e tradimenti; la leggenda è ricondotta a una costruzione degli uomini, nata con le “pulp novels” su Jesse James che Robert Ford da giovane nascondeva in una cassetta. “E’ tutto falso, lo sai?”, sentiamo dire di questi “pulps” all’inizio. Del resto quello di Jesse James è un suicidio: si toglie la pistola e volta le spalle al suo assassino con il muto stoicismo di un samurai. Non è che con questo voglia entrare nella leggenda: è incastrato in un ruolo predeterminato, come tutti.
E’ un film solenne e mortuario, doloroso anziché vitalistico, psicologico anziché epico; dove gli improvvisi scontri a fuoco non sono estetizzati ma anzi ricondotti alla piccolezza dell’immediato. Se la caratteristica del western classico era quella di purificare l’ambiguità dei comportamenti attraverso la geometria diretta dello scontro a fuoco, in questo film essa ritorna ad essere la grande regola dell’esistenza, e la sua morale è di spararsi alle spalle. Un antecedente illustre di questo realismo è il grande Altman della critica dei generi, segnatamente il western “I compari”, del 1971.
“L’assassinio di Jesse James” si svolge in una dimensione ambigua, incrociando la tensione notturna della rapina al treno e la quotidianità familiare, con Jesse James che ha una moglie e dei figli in una casetta borghese alla periferia della città. Per questo motivo la morte entra con tanta forza nel film: perché qui la morte non è un fulgore di gloria come in tanti scontri western, la morte è confusione e paura, dolore della ferita e lutto dei familiari, un cadavere irrigidito seppellito malamente oppure un uomo che piange nella notte perché ha paura di essere ucciso l’indomani – la morte è, semplicemente, spararsi addosso.
I fratelli Ford sono complici e poi nemici dei fratelli James (poi nella banda c’erano anche i fratelli Younger): questo è il “familismo amorale” del West, certo, ma crea anche un’angosciosa galleria di doppi. Al fondo di tutto sta che Robert Ford vorrebbe essere Jesse James e sa che non lo sarà mai (nel colloquio all’inizio del film, glielo dice il fratello di Jesse, Frank, dopo che Robert lo ha approcciato, untuoso e loquace come sempre: “Tu non sei niente di speciale, signor Ford”; “Non hai gli ingredienti adatti, ragazzo”). Se ne accorge anche Jesse stesso: “Tu vuoi essere come me o vuoi essere me?”
Così Robert Ford, qualunque cosa faccia, è un perdente. Uccidere Jesse James è certamente una garanzia di salvarsi, ma soprattutto un modo di rompere lo specchio, e una forma vicaria di immortalità – ma a teatro Robert Ford sarà costretto a ripetere per sempre il suo atto, come in un inferno dantesco; e si porterà dietro l’appellativo di “coward” per tutta la (non lunga) vita.
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