Matt Reeves
Sul ponte di Brooklyn, durante la fuga disordinata da New York assalita da un mostro gigantesco, rapido scambio di battute fra Hud, che sta videoriprendendo tutto, e il suo amico, testimoni del disastro. “Glielo racconterai tu” (al mondo). La risposta è: “Devono vederlo, capisci”. Per questo Hud deve continuare a riprendere.
In questa opposizione fra racconto e immagine sta il senso del non perfetto ma comunque bellissimo “Cloverfield”, diretto da Matt Reeves e prodotto da J.J. Abrams (“Lost”). L’immagine filmata è più credibile della parola. Il cinema è racconto per immagini, ma pur sempre racconto, messa in scena. Così si ripropone l’antitesi: travestendo il racconto da documento visivo mediante la soggettività della macchina da presa, mimando i tratti linguistici del documento (il movimento scomposto della videocamera, l’improvvisazione, gli errori), se ne vampirizza l’aspetto di urgenza e di realtà.
In realtà questi tratti linguistici non sono necessari in sé a un documento filmato. Nell’unico grande esempio di mostruosità aliena che conosciamo dalla storia recente, l’attentato dell’11 settembre 2001, al famoso filmato dell’aereo che va verso il grattacielo mancavano proprio questi tratti di improvvisazione; “sembrava un film”, ed è anche questo ad aggiungergli tragicità. Ma ovviamente in una fiction i tratti del documento devono essere enfatizzati, se vogliamo produrre l’illusione di verità. E’ implicito nella natura del falso documento che il dramma si esprima nelle forme del non visto e del mal visto - vale per le immagini del mostro e della sua progenie come per la trasformazione della ragazza morsa, accennata nel caos dei soldati e in ombre sul muro stile anni Quaranta. L’orrore non è sempre visibile e le sue tracce confuse sono più spaventose dell’orrore stesso perché vi aggiungono l’incertezza.
Alla visione confusa del visivo si oppone la nettezza pervasiva e impressionante del sonoro (la magnifica colonna sonora è opera della Lucasfilm, e se non ottiene la nomination all’Oscar per il suono è un’ingiustizia).
E’ su questa immediatezza che si regge “Cloverfield”, omaggio dichiarato ai grandi film di mostri (sono citati “King Kong”, “Assalto alla Terra” e “Il risveglio del dinosauro”), nonché, come quelli, metafora del terrore reale. Il concetto base è che il “documento” filmico venga ritrovato post factum, come una testimonianza e insieme un messaggio in bottiglia - lasciato dopo la constatazione finale che in una frase di dialogo racchiude la grande paura soggiacente al cinema dei mostri: “Non c’è nessun posto dove andare”: il labirinto si è chiuso.
Non tutto funziona nella definizione dei personaggi (per esempio è mal costruito il personaggio di Hud, ora stupido fino all’intollerabile ora no); però c’è nel film un’energia selvaggia e convinta. Ovvia la parentela col capolavoro di Myrick e Sanchez “Blair Witch Project”, al quale lo accomuna anche l’elemento della confessione in una splendida sequenza finale. In effetti pare inevitabile che l’umile camera portatile debba diventare a un certo punto ricettacolo di una confessione, di un’enunciazione – perché la sua natura di immediatezza, tutta proiettata all’esterno, regala alla confessione improvvisa un surplus di drammaticità.
Si situa nella stessa linea la trovata più bella e commovente di tutto il film: la registrazione del disastro avviene sul nastro già registrato di una giornata d’amore e di gita a Coney Island; poiché la registrazione non è in tempo continuo e ci sono degli stacchi casuali (a volte con qualche fatica della sceneggiatura per giustificarli), ogni tanto rispunta qualcosa del registrato precedente: così la tragedia ingloba ed eleva questi frammenti, come i fossili marini che troviamo nella roccia delle montagne. Il finale è straziante, col ritorno al filmato originario di quel giorno di pace, l’avvertimento (che ora assume un valore metaforico) che restano ancora solo 3 secondi di nastro e le parole conclusive, “E’ stata una gran giornata”.
sabato 23 febbraio 2008
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