Rogue
One (il
sottotitolo A Star Wars Story
esiste solo sui poster e
quindi non conta) è spesso definito uno spin-off, ma in
realtà è un falso spin-off che si rivela un prequel, saldandosi nel
finale con il Guerre stellari del
1977 (in seguito chiamato Episodio IV). Talché questo film – che
spiega come
mai la
principessa Leia
Organa possedesse i piani della Morte Nera – potrebbe ben avere per
sottotitolo “Episodio 3½”.
Ma
prima di parlarne, s'impone un avvertimento importante: la presente
recensione può essere letta solo da chi abbia già visto il film,
perché rivela liberamente tutte le sorprese del film.
Diretto
dal
vivace
Gareth Edwards, sceneggiato
da Chris Weitz e Tony Gilroy,
Rogue One
è classico Star Wars fin
dall'apertura canonica
– anche se poi
l'inizio, con la sua voglia di saltare da un pianeta all'altro
(ciascuno con la sua brava didascalia), appare un po' incerto
nell'avvio del discorso: non confuso, ma soffre di un eccessivo
accumulo. Gli sceneggiatori avrebbero potuto tenere maggiormente
presente il saldo classicismo del giovane George Lucas nel 1977. Poi
comunque il film trova il suo ubi consistam e
si sviluppa come un soddisfacente, emozionante segmento della saga –
costellato per buona misura
di citazioni visuali come la
battaglia conclusiva (Guerre
stellari) o i Camminatori AT-AT
in carrellata laterale (L'Impero colpisce ancora).
Anche
qui c'è un padre perduto da ritrovare o da rinnegare; e anche qui si
ritrova quella presenza della cultura orientale che caratterizza la
saga, di cui è incarnazione fisica il semi-Jedi ben interpretato da
Donnie Yen, cieco e abilissimo come Zatoichi.
Rispetto
al recente Il risveglio della Forza, c'è un interessante
adeguamento. Qui devo richiamare un discorso già fatto. La prima
trilogia di Star Wars va dal 1977 al 1983: saga della
primavera, opera di un giovane, distinzioni morali nette:
“O gran bontà de'
cavallieri
antiqui!” La
seconda trilogia (che sul piano diegetico precede) è degli
anni 1999-2005: saga dell'autunno, opera di un vecchio, distinzioni
morali blurred: vediamo il male che nasce dal grembo stesso
del bene.
Il
risveglio della Forza recuperava (con ingiusta
disapprovazione di Lucas, che aveva ceduto i diritti) l'elemento
primaverile ed epico della prima trilogia. Anche se il passato non si
dimentica, pure in termini di film visti; il dolore è sempre il
dolore; così una sfumatura amara è inevitabile. Il primo Star
Wars è del 1977, l'ultimo del 2015;
e quante cose sono successe in America in
quel quarantennio che vale
quanto un secolo?
Dunque i film di Star Wars si dispongono lungo un arco,
ai cui estremi sono la cupezza disperata de La vendetta dei Sith
e la confidenza fiabesca di Guerre stellari. Ora, rispetto a
Il risveglio della Forza,
Rogue One è
un po' più spostato
verso l'amarezza.
Consideriamo
i ribelli. Non è revisionismo ma realismo se Rogue One porta
in primo piano il peso morale della militanza, il dover obbedire
senza discutere a un ordine di omicidio, e in generale il senso di
colpa di ciascuno per qualcosa che ha dovuto fare. La ribellione è
una guerra, e le guerre sono fango e sangue.
Di
più, il film inventa una scissione fra i ribelli, con una frazione
estremista guidata dal semi-folle Saw Gerrera (Forest Whitaker). La
scena nella città di Jedha con le guardie imperiali che pattugliano
le vie – con soldati a
piedi attorno a un carro armato –
contro i ribelli che chiamano terroristi, e tutta la scena
dell'attacco alla pattuglia, alludono a un panorama contemporaneo
riconoscibilissimo (non per nulla la città ha un aspetto
mediorientale).
Ancora
di più. La sceneggiatura risolve con brillante spietatezza un
problema: ha disseminato nuovi eroi, i quali compiono una grande
impresa; ma di loro non v'è traccia nel resto (già narrato) della
storia. Come spiegarlo? Soluzione: la loro missione per rubare i
piani della Morte Nera diventa una missione suicida, anche per i due
protagonisti Felicity Jones e Diego Luna. Questo dà alla parte
finale del film un aspetto solenne e mortuario che lo eleva (e che
naturalmente si collega anch'esso alla temperie orientale).
Come
già accennato, è molto ingegnosa l'opera degli sceneggiatori per
far sì che Rogue One si “incastri” perfettamente con
l'Episodio IV. Accanto a Grand Moff Tarkin nel film rivediamo Darth
Vader (ma anche i senatori Bail Organa e Mon Mothma) e perfino, di
sfuggita, C-3PO. Alla fine compare Leia Organa, giovane e bella come
l'avevamo vista nel 1977, e le sue uniche parole chiudono Rogue
One con il
sottotitolo dell'Episodio IV: “A new hope”. E il caso, la
coincidenza della scomparsa di Carrie Fisher in questi giorni, rende
ancora più commovente questa conclusione.
Inutile
però negarsi che il punto su cui si discuterà ancora a lungo nei
circoli cinematografici è un altro, la resurrezione digitale di
Peter Cushing. Operazione riuscita in modo impressionante, questa.
Solo perché sappiamo che è già morto cogliamo a volte un accenno
minimo di meccanicità, ma talmente minimo che lo cogliamo perché lo
aspettiamo: il bambino che l'ignora non avrà problemi a ritenerlo un
attore come gli altri.
André
Bazin si sta rivoltando nella tomba, certo. Ma siccome non è mai
successo che chi possiede una tecnologia non la usi (lo dice anche
Kim Jong-un, purtroppo), è chiaro che le possibilità di far
rivivere un attore sono destinate a espandersi anche al di là della
giustificazione diegetica come qui. Evidentemente in futuro
l'“immagine fisica” (non più un ossimoro) di un attore sarà di
proprietà dei suoi eredi come oggi lo sono i testi di uno scrittore.
E cosa succederà quando scadranno i diritti sull'immagine?
Diventeranno di dominio pubblico? Qui c'è materia per gli avvocati!
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