Uno
scrittore di teatro omosessuale che, ancora giovane, sta morendo
torna in visita alla famiglia, dalla quale era fuggito e che non
vedeva da oltre dieci anni, per dirglielo. Alla fine non ci riuscirà.
Il
problema di E' solo la fine del mondo
di Xavier
Dolan è che può
essere definito una guerra
della regia contro la sceneggiatura. Anche
questa
è firmata da Dolan, ma a
partire da una
pièce teatrale di
Jean-Luc Lagarce; comunque,
almeno in parte
la contraddizione estetica è
interna non solo al film ma all'autore.
L'inizio
è ottimo. Bellissima l'entrata improvvisa in aereo delle mani di un
bambino seduto dietro sugli occhi del
protagonista Louis (Gaspard
Ulliel). Assai
bella poco
più tardi l'inquadratura in cui, dietro Louis al volante,
attraverso il lunotto posteriore dell'auto vediamo sullo sfondo,
piccoli piccoli, due palloncini rossi in volo. Xavier Dolan ha un
vero occhio per i momenti e le cose.
Ma
già nella presentazione della famiglia prima dell'arrivo del
protagonista compare il difetto di una sceneggiatura troppo conscia,
incarnata al massimo grado da Antoine, il fratello maggiore.
Interpretato con aderenza naturalistica da Vincent Cassel, Antoine è
quel tipo di persona che per restar fedeli all'origine francese
chiameremo un con –
o per dir meglio un connard: un con professionista,
un con al quadrato.
Va
bene e sta bene. Però esiste una precisa regola drammaturgica che si
può esprimere come segue: nella vita si è idioti gratis, a teatro e
al cinema bisogna essere idioti secondo un metodo. Anche un tratto
caratteriale predefinito dev'essere lavorato e comunicato attraverso
lo sviluppo drammatico. Per esempio, un esempio eccellente di
elaborazione drammatica dei personaggi è Carnage di Roman
Polanski, anch'esso tratto – e pur si vede – da un lavoro
teatrale.
Antoine
è geloso del fratello? Antoine non ha ancora digerito l'antico
abbandono? Come che sia, nel film esibisce verso tutti, moglie
compresa, anche prima dell'arrivo di Louis, un atteggiamento così
istericamente aggressivo che suona sonoramente falso; è talmente
caricato (o, come si dice, telegrafato) da incrinare la plausibilità
della narrazione (bisogna aggiungere che il doppiaggio non aiuta).
E
perché questo? La spiegazione dobbiamo cercarla fuori dal testo.
Antoine fa così perché è un elemento di crisi costruito
artificialmente, una rotella per mandare avanti la sceneggiatura. Il
problema quindi non è che ci troviamo visibilmente in una pièce
teatrale; contrariamente a quanto certi pensano, ciò non è un
difetto in sé; il problema è che –
nonostante alcuni buoni passaggi –
il testo mostra la macchina drammaturgica, allo stesso modo che un
tappeto vecchio mostra la trama.
Naturalmente
un autore è sempre libero di far saltare del tutto le regole: in un
film di Godard come Prénom Carmen Antoine potrebbe starci
benissimo. Ma è evidente che
non è tale
lo scopo artistico
di Dolan. E purtroppo
il difetto di caratterizzazione del personaggio proietta un senso di
artificiosità su tutto il film –
poiché
E' solo la fine del mondo rientra
nella categoria del melodramma, un genere ad
altissimo effetto emotivo
ma pericoloso da maneggiare: il melodramma è cinema dell'eccesso, e
a chi maneggia
l'eccesso sono proibiti i
passi falsi. La grande
lezione di
Fassbinder va studiata. Così
non fa meraviglia che le scene migliori siano
quelle in cui gli altri personaggi (la madre
un po' svampita, la moglie
rassegnata di Antoine, la sorella estraniata che vuole
e non vuole andarsene, tutti
ben interpretati) sono soli
con Louis.
Portando
sullo schermo questa sceneggiatura incrinata, Xavier Dolan fa un bel
lavoro di regia per infondere sensibilità al film. Si possono
ricordare gli stacchi drammatici con un “nero” mantenuto più a
lungo dell'usuale. O il gioco di inquadrature nei colloqui, in
particolare una scena di abbraccio fra Louis e la madre in cui il
primissimo piano inaspettatamente ravvicinato della madre contrasta
in modo commovente con quello di Louis, meno forte, nel controcampo.
O il senso tragico di un movimento indietro della mdp a partire
dall'orologio a cucù, interlineato con inquadrature di Louis che
piange all'esterno, e poi seguito dal movimento inverso – e
concluso da un potente dettaglio della sigaretta gettata a terra, e
sullo sfondo i piedi di Louis che esce di scena. O, alla fine, lo
scambio di sguardi con la cognata, che ha capito, col segno del
silenzio sulle labbra.
Il
finale è barocco nel suo incrocio di tre immagini che alludono alla
morte: Louis che guarda il suo orologio, il cucù che batte le ore,
lo svolazzare alla cieca di un passero rimasto chiuso in casa. E
l'immagine conclusiva con l'uccellino morente è di un simbolismo
addirittura esasperato; tuttavia questa centralità del visuale non è
malvenuta, in un film che non ha ben trovato la sua strada.
Infatti,
diviso tra il meccanicismo del testo e la sensibilità della regia,
questo film lascia una sensazione di incompiutezza. Molte cose gravi
sono implicate nella fabula (l'incapacità di parlarsi,
l'impossibilità del ritorno, il peso del non detto e la tragedia del
non dicibile), ma solo in parte si trasmettono nel racconto; mentre
per l'altra parte appartengono semplicemente all'oggetto del narrare,
e si colgono per empatia.
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