domenica 4 dicembre 2016

Il cittadino illustre

Gastón Duprat e Mariano Cohn
 
La realidad no existe”, dice il protagonista del film. Evidentemente nella cultura sudamericana il rapporto e lo scambio fra l'invenzione letteraria e la realtà è un tema fortissimo (non per niente Borges era argentino!). Lo ha declinato, in forme non del tutto convincenti, il recente Neruda di Pablo Larrain; ed è il tema della bella commedia nera Il cittadino illustre di Gastón Duprat e Mariano Cohn, che all'ultima Mostra di Venezia ha procurato a Oscar Martinez il premio come miglior attore. Il film ha la capacità di mettere insieme con efficacia e sicurezza i suoi due assi portanti: un'ironica allegoria della scrittura e una satira molto concreta e sanguigna dell'Argentina profonda.
Giustamente il protagonista Daniel Mantovani è uno scrittore; e il film inizia con il suo discorso a Stoccolma quando gli viene assegnato il premio Nobel, in cui gela il raffinato l'uditorio dichiarando che il compito dell'artista è turbare le coscienze, per cui il Nobel è certamente un onore ma sancisce il suo declino. Una scena intelligente e divertente – anche se, ora che esce il film, i numeri di Snob Dylan l'hanno, come dire, un po' indebolita.
Cinque anni dopo, Mantovani vive ritirato e rifiuta programmaticamente interviste, incontri e onorificenze. Ma ecco che accetta di andare (da solo) a Salas, il suo paese natale nel mezzo del nulla, dove non era mai ritornato dopo averlo lasciato da giovane, e dove sarà proclamato “cittadino illustre”. Bisogna però aggiungere che in un certo senso Mantovani non ha mai lasciato Salas, perché tutto quello che ha scritto richiama le esperienze della sua giovinezza laggiù, amplificate a formare un grande quadro della condizione umana.
Il film ha un'ambigua comicità nel descrivere come gli abitanti di Salas – che si sfiatano a dichiararsi molto fieri del loro concittadino – credano di riconoscere in tutta la sua opera, in ogni personaggio, in ogni avvenimento, perfino in ogni storia narrata da Mantovani lì per lì, sempre un riferimento concreto al piccolo mondo del paese. Di fronte a quest'insistenza euristica Mantovani ha un bel rivendicare l'indipendenza dell'arte dal contingente, dall'ideologia, dalla morale (cita audacemente Leni Riefenstahl). Probabilmente è il solo difetto del film che il programma di trasformare Mantovani in un portavoce della concezione dell'arte come invenzione e provocazione sia un po' troppo presente e insistito. Ma questo è fondamentalmente un film di sceneggiatura; e del resto, la conclusione – che non occorre svelare qui – retrospettivamente lo giustifica.
La perfezione sta nei dettagli, e Il cittadino illustre ne contiene alcuni assolutamente esilaranti: il filmato celebrativo di Mantovani costruito al computer, dove la bruttezza assoluta della realizzazione raggiunge un vertice di veridicità; l'intervista alla radio locale; la terrificante mostra di pittura amatoriale dove Mantovani è invitato come presidente della giuria, e senza volerlo sconvolge gli equilibri politici della cittadina.
Tutti perseguitano Mantovani per esternare questi due gemelli etimologici, il riconoscimento e la riconoscenza; mentre lui, sempre più perplesso, incontra vecchie conoscenze e un vecchio amore come fantasmi sempre più inquietanti. Tanto più che è entrato in scena l'antico miglior amico di Mantovani, il quale ha sposato la sua antica fidanzata – e c'è qualcosa di minaccioso nell'insistenza con cui allude, in mezzo alle dichiarazioni di amicizia fraterna, al fatto che adesso lei è sua. L'amicizia di cui è circondato mostra nascoste fragilità, e dietro i sorrisi spuntano ghigni.
La cosa migliore del film è proprio quell'atmosfera di minaccia che si costruisce lentamente, dapprima impalpabile e quasi kafkiana, confondendosi con la ridicolaggine imbarazzante di un provincialismo benintenzionato, poi definendosi a poco a poco, dapprima con l'aperta contestazione di un gruppo iper-conservatore, per poi esplodere nel terrore.
Un processo di degradazione che viene anticipato nella sequenza buffissima del viaggio di Mantovani verso il paese, sull'auto di un ciccione scemo che il comune ha mandato a prenderlo all'aeroporto più vicino. Ove assistiamo alla distruzione della scrittura di fronte alla brutale realtà: i due restano in panne in una landa sperduta, e i libri di Mantovani servono ad accendere il fuoco del bivacco o per un uso ancora più degradante quando il ciccione ha bisogno di ritirarsi dietro un cespuglio.
Così, da cittadino illustre a nemico pubblico il passo è breve (lo sapeva già Shakespeare…). E il livido quasi-finale del film non solo corona perfettamente la sua paziente costruzione dell'atmosfera ma ci fa capire qualcosa sulla ferocia della storia argentina del Novecento.
 

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