David Yates
Il castello di Hogwarts è stabile e immoto, nel magnifico “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” di David Yates; i ritratti non si muovono più dentro ai quadri (con la fievole eccezione di quello di Silente addormentato che compare alla fine). Se nel primo “Harry Potter” Hogwarts era incantata e cangiante, nel sesto ha la materialità oggettiva della “nostra” realtà. Nel finale, la feroce Bellatrix si diverte a spegnere le candele magiche aleggianti nella Grande Sala; il mattino dopo essa è fredda e desolata come un qualunque salone vuoto nella luce mattutina.
Tutto ciò potenzia il realismo cupo - in alcune scene, noir - del film: come quella assai elegante del colloquio segreto fra Piton e Draco Malfoy in un corridoio, inquadrati in campo medio-lungo, con la mdp che spostandosi in carrellata laterale passa dietro un pilastro che forma un “nero” - uscendo dal quale rivela il primo piano, gigantesco per contrasto, di Harry che origlia. Per lo stesso atteggiamento matter of fact, va osservato come Yates filma il Quidditch: dalla meraviglia infantile ed esaltata di Chris Columbus nel primo film della serie si passa a una precisione da telecronaca sportiva.
Altre dimore magiche, come casa Weasley e il capanno di Hagrid, vengono incendiati dai Mangiamorte (riguardo a casa Weasley l’aggiunta al romanzo è dovuta alla necessità di provvedere una scena d’azione spettacolare verso la metà del film). Contestualmente, la magia invade il mondo dei Babbani. La scena iniziale del film si svolge a Londra, quando i Mangiamorte di Voldemort distruggono il Millennium Bridge; e però quella parete a specchio del grattacielo, su cui si riflette l’addensarsi innaturale della tempesta, non ricorda uno specchio magico? Tutto l’inizio del film stabilisce un rapporto incestuoso fra il mondo magico e il nostro. Vediamo Harry flirtare nella stazione del metrò con una bella ragazza babbana, in una scenetta aggiunta al romanzo, e poco dopo Harry e Silente ammirano il cartellone pubblicitario di un profumo "magic" (giustissimo: in effetti la pubblicità è la magia del mondo babbano).
Non è, naturalmente, che Hogwarts non sia più magica: quel suo “congelamento” non avviene sul piano diegetico ma su quello discorsivo: ovvero, la sua magia non viene mostrata; e c’è un motivo. Anche se ci aspetta l’episodio conclusivo de “I doni della Morte”, “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” si può considerare la tappa finale del lungo percorso di Harry Potter in quanto Bildungsroman che incrocia un grande tema della letteratura infantile, il mito di compensazione dell’orfano maltrattato che trova una casa/famiglia alternativa, con la satira affettuosa, quasi wodehousiana, delle boarding schools inglesi. Entrambi questi motivi vengono a concludersi alla fine del sesto romanzo e del sesto film, quando Harry dichiara “Io non tornerò” (come tutti sanno, nel settimo libro Hogwarts appare solo alla fine, quale luogo della battaglia finale); giustamente le parole di Harry che chiudono il film sono “Non mi ero mai reso conto della bellezza di questo posto”. La scansione dell’esistenza in anni scolastici si conclude con la morte di Albus Silente, il padre sostitutivo. Il mettere tra parentesi l’incanto della casa simboleggia l’uscita dalla casa: la fine dell’adolescenza, il passaggio all’età adulta - che per Harry e i suoi due compagni è più doloroso, e anticipato di un anno, rispetto ai coetanei - in un quadro di dolore e di sacrificio che troverà nel settimo episodio il suo inveramento e la sua risoluzione.
Al suo ritorno dopo avere saltato il film precedente, lo sceneggiatore ufficiale del ciclo, Steve Kloves, consegna una riduzione esemplare proprio perché non ha paura di inventare: Kloves e Yates restituiscono il lungo romanzo di J.K. Rowling con forte fedeltà di fondo ma con tocchi di rimarchevole autonomia. Naturalmente, evidenti esigenze di durata hanno imposto il taglio di vari subplot. Un’unica riserva in merito: viene eliminata tutta la questione dell’albero genealogico di Voldemort, il che toglie motivazione e comprensibilità al personaggio (oltre che offuscare il suo carattere di “doppio” di Harry); almeno un accenno nel dialogo sarebbe stato appropriato.
Nella fotografia del precedente “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, David Yates si era compiaciuto di posizionamenti frontali di gusto vagamente pre-classico, tendenti al tableau. Anche la bella fotografia di “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” - firmata dal francese Bruno Delbonnel, all'esordio nella saga - conferma un (piacevole) gusto un po’ retró del regista. Yates usa abbondantemente uno stilema proprio del cinema classico: mette a fuoco il primo piano tenendo fuori fuoco lo sfondo, non senza l’inversione della messa a fuoco quando il punto di interesse scivola dal primo al secondo piano. Anche il taglio di luce è classico, piuttosto dolce. Sul piano visivo, non si può non segnalare la spettacolare bellezza degli esterni: penso all’inquadratura ultra-pittorica dello scoglio sul mare, o alla bella costruzione scenografica di vicoli alti e stretti quando Bellatrix e Narcissa Malfoy vanno a casa di Piton. Se tutto il film è vivo ed emozionante, la scena madre con il triste lago nella caverna e gli zombi sott’acqua è realizzata con eccellente senso epico; val la pena di notare che la figura di Silente, inquadrato dal basso, che agita la bacchetta richiama figurativamente il Mosè de “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille - non per nulla la cortina di fiamme si separa a destra e sinistra come il Mar Rosso in quel film.
Il corpo docente di Hogwarts è un vero patriziato di eccellenti attori inglesi. Ora vi accede Jim Broadbent, assai convincente come Lumacorno anche se ha perso i baffoni del romanzo. Il grande Alan Rickman (Piton) con una superba pagina finale si mette in marcia verso il ruolo centrale che avrà nell’ultimo episodio. Ma soprattutto sorprende l’exploit di Tom Felton nei panni di Draco Malfoy. “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” è il grande momento del personaggio - che si era alquanto usurato nei film precedenti - e in conseguenza dell’attore. Con un taglio di capelli più adulto, in giacca e pantaloni total black come Voldemort nell’apparizione allucinatoria in “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, Felton mostra un viso mobile e sensibile e dà un’inedita profondità al personaggio. Vien da pensare che sarebbe stato più adatto lui nel ruolo del vampiro di “Twilight”.
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