lunedì 10 agosto 2009

Adam Resurrected

Paul Schrader

Bisogna ringraziare il Premio Amidei di Gorizia che, nell’ambito di una molto opportuna celebrazione del regista e sceneggiatore Paul Schrader, ha dato occasione di vedere il suo ultimo film, “Adam Resurrected”, che chissà se neppure uscirà in Italia. Occasione tanto più fortunata in quanto “Adam Resurrected” è una sorta di summa del cinema di Schrader. Certo, molto appartiene al romanzo di Yoram Kaniuk (in italiano, “Adamo risorto”, Einaudi), sceneggiato da Noah Stollman (però anche Schrader ha contribuito alla sceneggiatura, uncredited); tuttavia, è un film eminentemente schraderiano, e come tale assume la forma della parabola.
Giace alla base del film, lo informa e lo struttura, il concetto di rispecchiamento. Ossessionata serie di duplicazioni, “Adam Resurrected” è una vertigine di specchi che riflettono altri specchi, come un labirinto sognato da Escher; ma la sua (schraderiana) tensione segreta verso l’alto - che solo a poco a poco si rivela nel film - ha qualcosa della cattedrale gotica. Come ha scritto Giona A. Nazzaro in uno splendido saggio, “il gioco delle messinscene, degli schermi e degli inganni, del rovesciamento dei ruoli e della teoria degli spettacoli, prospettano la possibilità che Adam Resurrected sia l’ipertesto stesso del cinema schraderiano”.

Nelle parole di Schrader, è “la storia di un uomo che una volta era un cane che incontra un cane che una volta era un ragazzo”. Nella Germania di Weimar l’ebreo Adam Stein (Jeff Goldblum) è un famoso clown di cabaret e imitatore, compresa l’imitazione di animali. Dopo l’avvento del nazismo, viene internato nel campo di sterminio con la famiglia; qui il comandante Klein (Willem Dafoe), psicopatico filosofo del male, lo costringe a trasformarsi in cane comportandosi in tutto e per tutto come una copia del suo cane lupo Rex. Questa è la duplicazione originaria; la crudele scena del primo incontro la sottolinea con un’inquadratura a piombo quando Adam imita il cane con una mimesi corporale così perfetta che Rex lo accetta come un suo simile (naturalmente è anche il passato teatrale di Adam che si rispecchia nel presente, quello rivelandosi come anticipazione, questo come terribile inveramento: il teatro ha un grande spazio in “Adam Resurrected”).
Il mite cane Rex diventa il gemello di Adam; non per nulla Klein sottolinea questo rispecchiamento quando, celebrando per sarcasmo la festa di Purim (la festa ebraica della liberazione e della gioia, in cui ci si mette in maschera), costringe Adam a truccare Rex da deportato ebreo, con la divisa a strisce e l’aria triste. Inoltre, dopo aver visto la sua famiglia portata al forno crematorio Adam ulula chiuso in una grande gabbia avendo Rex per solo compagno. In contrastante aggiunta alla trasformazione in cane, Klein costringe Adam a suonare il violino per accompagnare i detenuti alla morte - compresi i suoi familiari, per proteggere i quali lui aveva accettato il suo ruolo canino.
Sopravvissuto al Lager, e dopo il suicidio di una figlia sopravvissuta originato dalla scoperta della sua passata trasformazione in cane, negli anni sessanta Adam vive in Israele. Entra ed esce da un Istituto psichiatrico per sopravissuti dei campi situato nel deserto del Negev (nota che l’architettura razionalista dell’Istituto ricorda la praticità tutta linee e angoli retti del campo di sterminio; lo segnala in particolare un raccordo che congiunge la grande gabbia all’aperto, sopra menzionata, con le linee fredde e squadrate dell’Istituto).
Di quest’Istituto Adam è l’enfant terribile, aggiungendo al suo umore anarchico il potere di far passare il suo corpo attraverso una serie di disastri fisici psicosomatici - come dire, di morti e resurrezioni. Come per molti personaggi di Schrader, il peso del passato lo soverchia e lo schiaccia; si porta dentro la trasformazione in cane, fino a rimetterla in atto come gioco sessuale sadomasochistico con l’amante infermiera Gina Grey, che fa abbaiare a quattro zampe. Adam è il classico “uomo chiuso in una stanza” del cinema schraderiano, chiuso nell’impotenza finché non incontra l’elemento scatenante di una crisi che lo distrugga o lo guarisca dolorosamente - in una parola, il martirio.
Ciò avviene quando all’Istituto incontra un ragazzo che dopo un passato di abusi è regredito allo stato di cane (la sua maschera di stoffa bianca con due buchi per occhi ricorda un altro uomo-bestia, l’“Elephant Man” di David Lynch). Guarire il ragazzo dalla condizione canina è per Adam il modo per guarire se stesso. Ecco il secondo rispecchiamento: inizialmente i due si riconoscono reciprocamente in quanto cani (Schrader è fin troppo ellittico su questo ma è evidentemente lo stesso rapporto mimetico di Adam con Rex); però, in quanto si rispecchiano come tali, la salvezza dell’uno è la salvezza dell’altro. “Quel bambino è mio,” dice Adam a Gina, “siamo due cani nel deserto”. Adam si introduce di prepotenza nella caninità di David - lo porta anche al guinzaglio - per fargliela superare (c’è nel rapporto con questo enfant sauvage la stessa esigenza crudele del film di Truffaut); fino a quando può annunciargli: “Tu non sei un cane”. David si alza faticosamente in piedi e cammina.

Nella grande costruzione architettonica di “Adam Resurrected”, ogni passo, ogni figura, ogni movimento si sviluppa in un rapporto di doppio, attiva il riconoscimento di correspondances. Il film va letto secondo un’interpretazione multipla per la quale non sarebbe fuor di luogo ricordare la quadruplice interpretazione di Dante; non nel senso che Kaniuk, Stollman e Schrader abbiano operato secondo i criteri danteschi ma che - proprio come in Dante non v’è contraddizione fra la concretezza della figura letterale e le sue stratificazioni allegoriche, morali e anagogiche - in questo film tra l’elemento immediato e il suo raddoppiamento sul piano del simbolo e dell’allegoria v’è compresenza operante e attiva.
Adam non è solo il nome del primo uomo: in ebraico vale anche “umanità” in genere. Ora, presentandoci l’Istituto quando vi viene portato, la voce narrante di Adam ci dice una cosa importantissima: “my house in the desert”. Il deserto: il luogo dello smarrimento e della ricerca, dell’aridità e della pena, che dev’essere attraversato per salvarsi. Qui Adam si sdoppia come figura dell’intero popolo di Israele, biblicamente perduto nel deserto. Conviene ricordare che un tema presente in tutto il cinema di Schrader è lo scontro fra il padre e il figlio. Questa scissione si concretizza nel senso di colpa di Adam, padre che non ha potuto difendere la sua famiglia dalla distruzione; anche Adam in quanto padre deve “traversare il deserto” del passato e della colpa: un impegno che i protagonisti schraderiani conoscono assai bene. Però a un livello superiore di figurazione, in questo film (con la stessa perentorietà de “L’ultima tentazione di Cristo”, diretto da Scorsese ma scritto da Schrader) il padre è il Padre: uno dei temi base del film essendo quello dell’accusa a Dio - uno dei ricoverati getta un pugno di terra in cielo, contro “il Tiranno”, e progetta di morire per chiedergli di giustificarsi. Il che ci ricorda semplicemente che la Shoah è oggi il contesto in cui deve situarsi e cui deve rispondere qualsiasi ipotesi di teodicea.
Un’altra proiezione allegorica si ha quando, elaborando il concetto di cane sapiente, Adam introduce un collegamento tra il ragazzo David, il cane Rex (re) e Re Davide d’Israele. Adam concretizza il suo corto circuito verbale e concettuale quando presenta ai ricoverati lo spettacolo di “David, King of Dogs” nel “Circo di Adam”; nota che anche il suo antico spettacolo berlinese si chiamava Adam Zirkus - non per nulla lui ripete la presentazione identica anche in tedesco: “David, König der Hunde”. L’esibizione posta sotto gli occhi del pubblico è l’anello di congiunzione tra il cane sapiente e il lento recupero dell’umanità: David impara a battere a macchina su una portatile Olivetti (il suo testo - omaggio all’amante di Adam - con la stessa ostinazione di Jack Torrance in “Shining” sarà la continua ripetizione delle parole “GINA GREYS CLASSY ASS”).
Questa sequenza della "rappresentazione" ci porta all’elemento del teatro, un’altra delle idee forti su cui si organizza il film (ma in generale il cinema di Schrader), e che viene anche verbalizzata in una grande pagina di conferenza di Adam sul teatro e l’artificio. Il film riflette sullo spettacolo, la riproduzione, la messa in scena, l’imitazione, il mascheramento: vedi anche la sequenza della festa di Purim all’Istituto, con Adam truccato da clown di palcoscenico e i ricoverati in maschera, in una pagina di grottesco di gusto molto europeo (sia in Bergman che in Fellini paradossalmente il truccarsi non è un modo di coprirsi il volto/anima ma di metterlo a nudo). “Adam Resurrected” con la sua fuga prospettica di raddoppiamenti è una specie di parafrasi totale di qualsiasi messa in scena. I flashback sull’ascesa del nazismo la sintetizzano dal punto di vista di Adam come se fosse un controcampo del palcoscenico. L’istrionismo di Adam come enfant terribile dell’Istituto è anche il rispecchiamento del suo istrionismo di entertainer prima della deportazione, e al di là di questo tutta la trasformazione in cane nel campo di sterminio è nero capolavoro di spettacolo, messa in scena, impersonazione. Infatti, nella parti del campo di sterminio, la vera messa in scena dell’orrore assoluto del nazismo non sta tanto nelle scene “istituzionali” del campo (anche se nessuno ha il diritto di dimenticare la panoramica ascendente sul camino col fumo del forno crematorio) quanto nel Kammerspiel di Jeff Goldblum e Willem Dafoe nell’alloggio di quest’ultimo.

Nella pagina culminante del film, Adam esce nel deserto gridando a Dio di mostrarsi; e vede il Roveto Ardente. Ma dalle fiamme esce l’allucinazione di Klein (l’ironia per cui il Male assoluto si rivela nella forma assunta biblicamente dal Dio d’Israele non è che un’altra illustrazione simbolica del problema della teodicea, che sta alla base non solo di questo ma di qualsiasi film sull’Olocausto). Klein cerca di indurre Adam a uccidersi - merita notare come Willem Dafoe abbia spesso in Schrader il ruolo del tentatore, da “Affliction” ad “Autofocus”. Adam dunque è andato nel deserto ad incontrare la propria parte oscura. Ma supera la tentazione del suicidio - ed ecco David uscire camminando nel deserto e parlargli.
In seguito la voce narrante di Adam dice che David è andato a vivere con un parente che pare una brava persona. E lui stesso? “Sono diventato un uomo qualunque”. Imprevedibilmente qui entra un grande monologo poetico e scandaloso - preso direttamente da Kaniuk - sul fatto che, ora ch’è guarito, Adam vive nella tranquillità della pianura ma non conosce più né i baratri né le vertiginose altezze della follia.
La forma base del racconto in Schrader è il percorso di crocifissione e redenzione. Un percorso bressoniano (ricordiamo l’amore di Schrader per “Pickpocket”) dove la redenzione è autosacrificio: Adam nel guarire l’altro guarisce se stesso e ciò però lo libera dalla velenosa esaltazione romantica della follia. Per questo non è più interessante per l’infermiera Gina Grey che, ci racconta, lo lascia immediatamente appena guarito. Nel suo discorso finale si coglie un elemento di rimpianto. “Un uomo qualunque” vuol dire il contrario di quella figura mercuriale che abbiamo visto nella Germania pre-nazista del film; talché il film si chiude su una nota di tristezza; il tempo non scorre all’indietro, la perdita di tutto non può essere risarcita.
Si sa che il film dei film per Paul Schrader è “Sentieri selvaggi” (dice di rivederlo una volta al mese). Inutile ricordare che ne ha fatto una parafrasi moderna in “Hardcore”. C’è la tentazione vedere un’analogia fra Adam in “Adam Resurrected" ed Ethan Edwards in “Sentieri selvaggi”. Come Ethan, Adam ha attraversato il deserto per riportare a casa un figlio perduto - ma come per Ethan la conclusione del film non vede il protagonista restare nella famiglia bensì allontanarsene, certo coi suoi fantasmi pacificati, ma comunque solo.

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