Stefan Arsenijevic
La disumanità dei regimi comunisti dell’Est europeo - sia filosovietici che “non allineati” - la possiamo vedere materializzata nell’architettura: l’orrore dei casermoni di cemento che deturpano le città, come la Belgrado post-comunista di “Amore e altri crimini”. In quel rifiuto dell’eleganza si ha l’impressione che si attivasse non tanto una motivazione negativa (disinteresse utilitaristico per l’estetica) bensì affermativa (volontà del brutto). I regimi comunisti parevano intuire che il concetto stesso di bellezza era contro di loro.
Il film di Stefan Arsenijevic, al suo debutto nel lungometraggio, mostra una vera capacità di usare l’orrido architettonico a fini espressivi, ed anzi questo è forse il suo aspetto migliore. Anche se il film si svolge largamente all’aperto, è un ambiente ristretto e claustrofobico, una trappola per topi. La fotografia di Simon Tansek è realistica, i colori sono opachi, la luce è spenta; sembrano le foto di Boris Mikhailov. Tansek concretizza lo spirito del film in una bella raggelante inquadratura “dal fondo del pozzo”, con le mura dei palazzoni che si uniscono a contornare in alto un piccolo quadrato di cielo; ne vedremo una simile alla conclusione, quando passa in cielo l’aereo di Anica, ma in quest’ultima le masse dei casermoni sono separate, meno soffocanti.
Interpretato da un ottimo gruppo di attori serbi (dal vasto curriculum, anche se non conosciuti da questo lato dell’Adriatico), il film incrocia una narrazione sommessa e rarefatta con una robusta vena di naturalismo balcanico per raccontarci l’ultima giornata di Anica - amante di Milutin, piccolo boss malato e in depressione - prima di rubargli i soldi dalla cassaforte e prendere il volo. Il giovane braccio destro del boss, Stanislav, innamorato di lei, le propone incertamente sia di fuggire insieme, sia di restare insieme a Belgrado. Figure inquiete si muovono tristemente in questo universo grigio, un’atmosfera plumbea di malessere diffuso - come la figlia adolescente di Milutin con impulsi suicidi, o la madre di Stanislav, cantante sfiorita che vive nel passato. E’ un universo di sconfitti. Il boss Milutin e il suo rivale Radovan chiedono il pizzo ai negozietti (“Miseri soldi per una misera vita”, dice Milutin) e si battono con avvelenamenti di cani e incendi di chioschi in una tragicomica guerra per spartirsi (come bande di bambini) non i quartieri della Chicago di Al Capone ma gli angoli dello spiazzo fra i palazzoni; sta per essere costruito un centro commerciale che rovinandoli farà cessare le guerre, come in una versione contorta de “I ragazzi della via Pal”. Il concetto che ritorna su tutto è quello dell’abbandono e del tradimento: Milutin ha lasciato un’antica amante, il padre di Stanislav ha abbandonato madre e figlio, vediamo Anica vendicarsi di un suo ex, il gestore della videoteca porno non ha avuto il coraggio di seguire la sua donna all’estero… Piccoli gesti d’amore compongono il ricamo di un romanticismo tragico in cui l’elemento costitutivo è sempre quello della rinuncia. C’è una dignità sacrificale da parte di Anita e Milutin: Milutin, che sa cosa succede, lascia in cassaforte più soldi del solito perché ad Anica serviranno per farsi una nuova vita; Anica, ignara, prende solo parte dei soldi che trova, e lascia per lui una sua fotografia. Con una sottolineatura un po’ troppo marcata, la canzone “Besame mucho” attraversa ossessivamente il film.
Il naturalismo, a differenza del realismo in senso stretto, si combina bene con l’aspetto simbolico. Erich von Stroheim fece dipingere di giallo sul b/n di “Greed” tutti gli oggetti dorati, per indicare la centralità del tema dell’oro. In “Amore e altri crimini” qualcosa non funziona bene in questa funzione simbolica, perché troppo scoperto: ad esempio l’uccello che vola stridendo fra i palazzoni (però è bella la somiglianza finale con l’aereo di Anica). Rimangono impressi, invece, i “segni” quasi preternaturali alla fine - come il metal detector che si guasta, in connessione con l’irrompere della morte.
(Il Nuovo FVG)
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