Giuseppe Battiston
“Viva
la campagna”, cantava cinquant’anni fa Nino Ferrer – ma è
dubbio che questo sentimento bastasse a renderlo un bravo
coltivatore. Lo stesso vale per i due Fausto di Io vivo altrove! di
Giuseppe Battiston. Fausto Biasutti (Battiston) è un bibliotecario
passabilmente frustrato: “La trama è fiacca, lo sguardo è povero”
sono le prime parole che sentiamo nel film – ed è un inizio
ironicamente apotropaico. Fa amicizia con Fausto Perbellini (Rolando Ravello), un fotografo dilettante (le sue foto, che vediamo alla
fine, sono belle, e sono in realtà di Emilia Mazzacurati); alla sua
età non verdissima questi vive ancora con la madre, ma lei vuole
togliergli il laboratorio di sviluppo nel bagno per farne la sauna
desiderata dal suo compagno (dal tempo dei bamboccioni la satira è
passata a quello delle âgées immortali). Colpo di fortuna, Fausto
B. eredita dalla nonna una proprietà in Friuli e coglie
l’opportunità di mollare tutto, coinvolgendo Faust P. in un
progetto di vita autosufficiente in campagna coltivando mirtilli.
Con
Bouvard e Pécuchet Flaubert ha costruito una gigantesca epopea
nichilista della stupidità umana e dell’illusione enciclopedica;
dove l'ostinazione dei due protagonisti diventa una via crucis di
entusiasmi e cadute sotto la lente di un umorismo spietato e
misantropico che in certi punti sembra anticipare Morte a credito di
Céline. Del romanzo di Flaubert Giuseppe Battiston riprende la prima
parte per il suo esordio di regista, ma con un rovesciamento di
prospettiva. Mentre lo sguardo di Flaubert è verticale, dall’alto,
come si conviene a una satira impietosa, lo sguardo di Battiston –
anche sceneggiatore con Marco Pettenello – è orizzontale: umano,
alla pari, di adesione; il suo umorismo non è crudele. Il simbolo
del film e dei suoi due protagonisti è il mirtillo, che sentiamo
definire all’inizio “pianta acidofila ma caparbia”. Io vivo
altrove! è un encomio e quasi un’elegia della caparbietà.
Non
è che Fabio B. sia proprio popolare in paese (“Va via, mona!”),
e l’incidente con la birra fabbricata non fa nulla per aumentare
l’apprezzamento dei due. Intanto la terribile signora Gina (una
grande Ariella Reggio) li guata dalla casa confinante, borbottando
“Imbecilli”, ed è sempre pronta a comprare i pezzi di terra che
i due sono costretti a vendersi. Una lunga serie di pasti francescani
di insalata punteggia il film, mentre si fronteggiano i disastri
dell'entusiasmo e la durezza della realtà: vediamo Fausto B. che
strappa l’erba a mano, poi passa al falcetto, poi passa alla falce
– e poi un’inquadratura col drone mostra il misero cerchio di
terra liberata in un campo enorme. Fallimento dopo fallimento,
chimera dopo chimera, i due tirano avanti ostinatamente,
autoilludendosi e congratulandosi a vicenda, sempre inappuntabili sul
piano formale, sempre dandosi del lei con un rispetto formale
ottocentesco (o giapponese). Ma nella luce fredda della sconfitta
finale, stanno per mollare tutto. “Qui i mirtilli non crescono”,
sibila la signora Gina. Viso drammatico di Battiston – e poi
l'imprevisto “Non ce ne andiamo”.
Di
solito un regista al suo esordio dice troppo, c’è una difficoltà
ad asciugare e tagliare. In questo caso si direbbe che Battiston
abbia preferito l’opposto – alcuni passi del film lasciano
l’impressione di essere stati asciugati troppo. Per esempio, uno
dei momenti migliori, quando sull’onda emotiva di una canzone
diegetica che passa da suono off a over vediamo la sera degli
abitanti del paese, compresa la Gina che mette fuori il suo gatto, e
avrebbe potuto essere allungato diventando uno squarcio
psicologico-lirico.
Giuseppe
Battiston ha una carriera teatrale ricca e intensa, nella quale per
esempio è stato Welles e Churchill, o un grande Macbeth in una
splendida messa in scena di Andrea De Rosa accanto a Frédérique
Loliée, e attualmente Dovlatov. Non sempre, con alcune notevoli
eccezioni, ma più d’una volta il cinema lo ha impiegato in modo un
po’ facile, con una minore ampiezza interpretativa. In questo suo
primo film da regista l’ampiezza si ritrova; il viso è aperto,
cordiale, c’è un elemento di ingenuità nella voce, più chiara
(inteso non come pronuncia ma come colore); e la rivelazione finale
della sua tragedia, in una carrellata fra le tombe, illumina
retrospettivamente le sue lettere alla figlia e quella seconda
pianta-simbolo che è la “calendula greca”. C’è una
gentilezza in questo film.
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