Damien Chazelle
All’inizio
di Babylon, subito prima della lunga sequenza del party-orgia, il
personaggio di Diego Calva viene investito da un diluvio di sterco
d’elefante. Ciò apre un film dove dominano secrezioni e liquami;
in 189 minuti Damien Chazelle, regista e sceneggiatore, vuole
mostrare “Di che lagrime grondi e di che sangue” (usando altro
materiale che le lacrime) il mondo del cinema hollywoodiano nei tempi
frenetici del muto e del doloroso passaggio al sonoro. E’ il
racconto di una caduta; non per nulla, a fianco di cento film con
cui Hollywood ha criticato se stessa, un importante riferimento
sotteso – esplicitato nel finale – è Cantando sotto la pioggia
di Stanley Donen e Gene Kelly.
Come
in ogni film d’ambientazione storica, c’è un po’ di
name-dropping, alcuni personaggi autentici, e altri più o meno
allusivi (del resto, compare un grosso produttore che ha una sospetta
somiglianza con Harvey Weinstein); in questo senso è quasi un film à
clef. Naturalmente la ragazza che vediamo all’inizio col ciccione
“Piggy” e che muore rimanda al caso Fatty/Virginia Rappe che
stroncò la carriera di Fatty Arbuckle (il quale in realtà era
innocente, secondo la testimonianza di Buster Keaton e la
ricostruzione ne Il giorno che smettemmo di ridere di David Yallop).
Ispirato alle pagine divertenti ma alquanto fantasiose di Hollywood
Babilonia di Kenneth Anger, Babylon manca sovente di accuratezza
nella ricostruzione storica – e di accuratezza filologica nei suoi
brani di film immaginari. Salvo errore, quando Margot Robbie va a
vedere il suo film non si sente accompagnamento musicale dal vivo;
inoltre la scena che vediamo è virata, poco credibilmente, in rosso
(un giallo o un azzurro tenue sarebbero stato più appropriati).
Anche nella bella carrellata iniziale sul lavori sul set, il film
confonde le condizioni di realizzazione del 1926 con quelle del 1906.
Le orge, poi, non mancavano, ma non erano proprio un affollamento
assiro-babilonese come quella che vediamo nel film (magari! Da
prendere la macchina del tempo). Tuttavia, è importante ricordare
che, un po’ come Esterno notte di Bellocchio, Babylon è una
rielaborazione artistica e non un saggio storico (anche se poi è
inevitabile che molti spettatori li prendano come vangelo).
Se
guardiamo solo alla sceneggiatura, Babylon è banale: appare articolato ma a esaminarle da
vicino le psicologie, e gli accadimenti che ne derivano, sono
fittizie, cartapesta: gato por lievre, come dicono in Spagna. Si
muove tra la prevedibilità e la forzatura (vedi l’episodio dei
dollari falsi); sembra una commedia satirica raccontata con mortale
serietà. Lo sorreggono le buone interpretazioni (Diego Calva, Brad
Pitt, Li Jun Li, Tobey Maguire in una bella parte di gangster, ma
eccelle in particolare Margot Robbie).
Peraltro,
Babylon ha un'energia di messa in scena che almeno in parte compensa
la banalità di sceneggiatura. C’è qualcosa di scomposto e di
sgraziato, ma Damien Chazelle è un regista dell’eccesso: sia
interno che esterno al plot. Si ha l’impressione che il suo
desiderio segreto sia di essere, più che un Cecil B. DeMille, una
sorta di Erich von Stroheim postmoderno. E’ innamorato
dell'onnipotenza del regista, più che del cinema in sé; ma gli manca
quella dote di autodisciplina artistica che posseggono anche grandi registi barocchi e debordanti come von Stroheim. In
definitiva, alla base del cinema di Chazelle non c’è il romanzo
bensì il musical (forse anche per questo il suo film ha un andamento
“a episodi”).
Talvolta
Chazelle è francamente deludente. Per esempio, in un passaggio
concepito per essere drammatico Margot Robbie deve vomitare addosso a
un uomo in una festa elegante; lo fa con un getto enorme e diretto
come se fossimo ne L'esorcista: con inevitabile effetto di
anticlimax. Oppure vedi l’episodio del sughero bruciato, che segna
l'allontanamento da Hollywood dell’importante personaggio di Jovan
Adepo: si capisce che Chazelle voglia introdurre una polemica
contemporanea come quella sul blackface, ma il modo distratto in cui
lo fa (il trucco grezzo del personaggio) è ridicolo.
Altre
volte, però, la messa in scena esorbitante riesce a ottenere un
effetto quasi ipnotico: l’orgia iniziale, la finta battaglia
davanti alla macchina da presa (che è volutamente gemella della
precedente), l’episodio del serpente a sonagli; o quando Chazelle
ci porta in una Los Angeles di puro horror neo-noir memore di James
Ellroy e della Dalia Nera. Vi sono buoni tocchi, come quando Margot
Robbie esce di scena in modo metacinematografico; o il finale
elegiaco sul potere del cinema. Perché Babylon si gioca su due poli:
la critica a Hollywood, luogo di corruzione e di irresponsabilità, e
l’esaltazione del potere del cinema (anche hollywoodiano) di materializzare i sogni – e
di dare l’immortalità, come in un bel dialogo dice a Brad Pitt la
giornalista Jean Smart. Questa contraddizione poteva essere
artisticamente produttiva, ma si ha l’impressione che il film non
la risolva, e i due poli restano non conciliati.
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