sabato 14 gennaio 2023

Un bel mattino

Mia Hansen-Løve

Scriveva François Truffaut nel 1957: “Il film di domani lo vedo dunque ancora più personale di un romanzo, individuale e autobiografico come una confessione o come un racconto intimo. I giovani cineasti si esprimeranno in prima persona e ci racconteranno le loro storie” (citato nel bellissimo libro di Alberto Crespi Short Cuts. Il cinema in 12 storie, Laterza 2022). Non è andata esattamente così; ma Un bel mattino di Mia Hansen-Løve ci si avvicina molto. La regista francese ha sempre portato molto di autobiografico nel suo cinema; Un beau matin – dove la giovane vedova Sandra (Léa Seydoux) e i suoi familiari fanno i conti con il tragico declinare del padre Georg (Pascal Greggory) in preda a una malattia neurovegetativa che gli sta portando via corpo e mente – adombra la vicenda di Ole Hansen-Løve, il vero padre della regista. Il potente brano poetico-filosofico “Ballata della malattia rara” che sentiamo recitare dalla voce over di Pascal Greggory sulle immagini di Sandra viene dai taccuini di Ole Hansen-Løve, come viene dai suoi taccuini il titolo prospettivo in tedesco di un’autobiografia non scritta, An einem schönen Morgen, che è il titolo del film. E anche la nonna della regista compare in una scena.
Il film di Mia Hansen-Løve è lieve e sentito (decisamente migliore del precedente Sull’isola di Bergman). Lieve non per l’argomento – anzi, questo film trasmette in pieno il dolore della vita – ma per il tocco. E’ un film antipsicologico che registra gli avvenimenti restando attaccato alla protagonista (bravissima Léa Seydoux) nel suo rapporto con la malattia del padre (commovente la pagina sulla sua biblioteca che viene regalata) e il sistema sanitario da un lato, e dall’altro la famiglia, la figlia bambina e l’amante Clément (Melvil Poupaud), con il quale il rapporto è molto passionale ma tutt'altro che facile, poiché lui è sposato. E’, quella dello spettatore nel film, una sorta di intromissione non invasiva, un comme si vous y etiez, con benevola oggettività. Nota che, poiché Sandra fa la traduttrice simultanea, un tocco delizioso del film è che, quando la vediamo in azione nel suo lavoro, si scopre, come un inner joke metanarrativo, un intelligente collegamento simbolico fra quel singolo passaggio di traduzione e il contesto della vita di Sandra in quel momento.
L’adesione simpatetica non esclude un elemento di ironia un po’ alla Claire Brétecher nella figura della madre divorziata (Nicole Garcia) che alla sua età non più verde si unisce a gruppi di eco-vandali stile Last Generation. Deliziosamente perfido il racconto di quando la polizia l’ha trattenuta per quattro ore e poi l’ha lasciata andare: “Si sono impietositi”. Ma traspare un’ironia più sottile, molto femminile, nel modo in cui l’amante Clément viene presentato all’inizio della relazione come il classico uomo dei sogni, esotismo compreso (il racconto sulla foca leopardo, che infatti Sandra si sogna la stessa notte!).
Il film ruota attorno alle figure di Sandra e del padre (Pascal Greggory gareggia con Léa Seydoux per la bellissima interpretazione). Ma anche un altro personaggio bisogna nominare, la figlia bambina Linn (la piccola Camille Leban Martins). Linn, un carattere forte corazzato nell’egocentrismo naturale dei bambini, più che dalla malattia del nonno è colpita dalla nuova relazione della madre, che scopre a letto con Clément. Ma non segue una reazione isterica alla Denys Arcand (“Mandalo via!”: Il declino dell’impero americano). In uno sviluppo davvero degno di Truffaut, si mette a ridere, trascinando Clément nella risata.
Linn
sembra una presenza di contorno e invece il suo sguardo attento attraversa tutto il film. Al punto che potremmo dire che l’intera sarabanda delle vite degli adulti è come rinchiusa fra due figure “esterne”, impossibilitate alla comprensione piena: la bambina, che adulta non è ancora, e il padre, penosamente espulso dal mondo adulto dal suo declino mentale.

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