Mia Hansen-Løve
Scriveva
François Truffaut nel 1957: “Il film di domani lo vedo dunque
ancora più personale di un romanzo, individuale e autobiografico
come una confessione o come un racconto intimo. I giovani cineasti si
esprimeranno in prima persona e ci racconteranno le loro storie”
(citato nel bellissimo libro di Alberto Crespi Short Cuts. Il cinema
in 12 storie, Laterza 2022). Non è andata esattamente così; ma Un
bel mattino di Mia Hansen-Løve ci si avvicina molto. La regista
francese ha sempre portato molto di autobiografico nel suo cinema; Un
beau matin – dove la giovane vedova Sandra (Léa Seydoux) e i suoi
familiari fanno i conti con il tragico declinare del padre Georg
(Pascal Greggory) in preda a una malattia neurovegetativa che gli sta
portando via corpo e mente – adombra la vicenda di Ole Hansen-Løve,
il vero padre della regista. Il potente brano poetico-filosofico
“Ballata della malattia rara” che sentiamo recitare dalla voce
over di Pascal Greggory sulle immagini di Sandra viene dai taccuini
di Ole Hansen-Løve, come viene dai suoi taccuini il titolo
prospettivo in tedesco di un’autobiografia non scritta, An einem
schönen Morgen, che è il titolo del film. E anche la nonna della regista
compare in una scena.
Il
film di Mia Hansen-Løve è lieve e sentito (decisamente migliore del
precedente Sull’isola di Bergman). Lieve non per l’argomento –
anzi, questo film trasmette in pieno il dolore della vita – ma per
il tocco. E’ un film antipsicologico che registra gli avvenimenti
restando attaccato alla protagonista (bravissima Léa Seydoux) nel
suo rapporto con la malattia del padre (commovente la pagina sulla
sua biblioteca che viene regalata) e il sistema sanitario da un lato,
e dall’altro la famiglia, la figlia bambina e l’amante Clément
(Melvil Poupaud),
con il quale il rapporto è molto passionale ma tutt'altro che
facile, poiché lui è sposato. E’,
quella dello spettatore nel film, una sorta di intromissione non
invasiva, un comme si vous y etiez, con benevola oggettività. Nota
che, poiché Sandra fa la
traduttrice simultanea, un
tocco delizioso del film è che, quando
la vediamo in azione nel suo
lavoro, si scopre, come un inner joke
metanarrativo, un intelligente collegamento simbolico fra quel
singolo passaggio
di traduzione e
il contesto della vita
di Sandra in quel momento.
L’adesione
simpatetica non esclude un
elemento di ironia un po’ alla Claire Brétecher nella figura della
madre divorziata (Nicole
Garcia) che alla sua età
non più verde
si unisce a gruppi di eco-vandali stile Last Generation.
Deliziosamente perfido il racconto di quando la polizia l’ha
trattenuta per quattro ore e poi l’ha lasciata andare: “Si sono
impietositi”. Ma
traspare
un’ironia più sottile, molto femminile, nel modo in cui
l’amante Clément viene presentato all’inizio della relazione
come il classico uomo dei sogni, esotismo compreso (il racconto sulla
foca leopardo, che infatti Sandra si sogna la stessa notte!).
Il
film ruota attorno alle figure di Sandra e del padre (Pascal Greggory
gareggia con Léa Seydoux per la bellissima interpretazione). Ma anche
un altro personaggio bisogna nominare, la figlia bambina Linn (la
piccola Camille
Leban Martins). Linn, un
carattere forte corazzato
nell’egocentrismo naturale
dei bambini, più che dalla
malattia del nonno è colpita dalla nuova relazione della madre, che
scopre a letto con Clément. Ma non segue una reazione isterica alla
Denys Arcand (“Mandalo via!”: Il declino dell’impero americano). In uno
sviluppo davvero degno di Truffaut, si mette a ridere, trascinando
Clément nella risata.
Linn
sembra una presenza di contorno e invece il suo sguardo
attento attraversa tutto il film. Al punto che potremmo dire che
l’intera sarabanda delle vite degli adulti è come rinchiusa fra
due figure “esterne”, impossibilitate alla comprensione piena: la
bambina, che adulta non è ancora, e il padre, penosamente espulso
dal mondo adulto dal suo declino mentale.
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