martedì 9 maggio 2017

I Am Not Madame Bovary

Feng Xiaogang

Non solo il miglior film di Feng Xiaogang negli ultimi anni ma sicuramente il suo migliore in assoluto, I Am Not Madame Bovary è un capolavoro. Detto per inciso, il titolo inglese internazionale non rende affatto quello cinese, che suona “Io non sono Pan Jinlian” (un nome proprio che per antonomasia significa “donnaccia”).
Questo film potrebbe esser definito la Storia di Qiu Ju (alludo al film di Yang Zhimou) di Feng Xiaogang. Lian (Fan Bingbing) è una donna di campagna in lite coll'ex marito (avevano divorziato come trucco per ottenere un appartamento in più, coll'accordo di risposarsi subito dopo, ma lui ne ha approfittato per sposare un'altra). Il tribunale locale le dà torto – e lei amplia la sua protesta entrando in causa coi giudici, i burocrati del livello superiore, e via via – fino a turbare l'Assemblea Nazionale del Popolo a Pechino! E questo è solo l'inizio – continua per dieci anni, e diventa il terrore dei politici locali. Come sentiamo nel film (che è anche un'ironica riflessione sulla dialettica fra piccolo e grande), “un granello di sesamo è diventato un'anguria”.
Si tratta di un film fortemente satirico, ma attenzione, un esempio raro di satira senza commedia: una satira di cervello, dove l'elemento di aspro divertimento è nelle cose e non nel modo di racconto. Volendo trovare riferimenti occidentali: una satira che non richiama Swift (anche se è molto swiftiana la scena del padrone del frutteto nel pre-finale) bensì Gogol'.
Bisogna saper cogliere la raffinatezza dei tocchi – ad esempio, a un certo punto veniamo spiazzati da un brusco stacco a personaggi dell'antica Cina, immobili, su cui risuonano massime che paiono confuciane. Poi vediamo che è un museo delle cere, e queste massime sono profferite dal capo-burocrate di partito, in visita , con la “saggezza” para-confuciana del politicante. Oppure, bellissimo il modo in cui le ripercussioni del caso coinvolgono le lotte tra correnti del partito comunista cinese.
L'aspetto più evidente a prima vista, e del tutto rivoluzionario, è che il film usa tre formati: uno che è un audacissimo formato “rotondo” ottenuto con un mascherino (sembra incredibile ma metà del film si svolge così), per le scene nel villaggio; nei due viaggi a Pechino cui assistiamo, il film passa all'antico formato 1:37:1 dei film di una volta; e per la conclusione adotta il formato scope. La fotografia di Luo Pan, estremamente raffinata, fa miracoli di eleganza (perfino estenuata), in particolare in questo inusuale “formato tondo”. E le transizioni da un formato all'altro sono bellissime, autentica poesia visiva.

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