venerdì 4 febbraio 2022

La fiera delle illusioni - Nightmare Alley

Guillermo Del Toro

Nel suo cinema Guillermo Del Toro ha sovente mostrato una traccia (talvolta anche di più: La forma dell'acqua) di compiaciuta autoindulgenza. Non però ne La fiera delle illusioni – Nightmare Alley (dal romanzo di W.L. Gresham Nightmare Alley, edito in Italia da Sellerio): col suo film probabilmente più maturo, il regista messicano-hollywoodiano crea un'opera di rigoroso (neo)classicismo, che ricaccia – al limite della freddezza – le emozioni all'interno del racconto – e dei simboli.
Al centro dell'universo del film sta la descrizione dei “fenomeni” delle fiere viaggianti (siamo tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta), tra cui il geek, il selvaggio “uomo bestia” che mangia galline vive: in realtà un povero alcoolizzato sfruttato dall'imbonitore. Alla fiera arriva Stan Carlisle (Bradley Cooper), intelligente, disonesto e di bell'aspetto, in fuga da un passato che sarà rivelato appieno in un triplo flashback invertito alla fine del film. Da Zeena (Toni Collette), incrocio tra amante e madre sostitutiva, e dal suo marito ubriacone Pete (David Strathaim), Stan impara a fare il “lettore del pensiero”, imbrogliando i “gonzi” grazie a ottime doti di intuizione che decifrano i segnali involontari. I grandi temi del film sono appunto la finzione e la nostra invincibile necessità inconscia di rivelarci. La confessione involontaria come filo rosso del racconto. “Cosa voglio? Essere scoperto, come chiunque altro”, sentiamo nella surreale seduta psicoanalitica cui Stan è sottoposto dalla dottoressa Ritter.
Lasciata la fiera, Stan mette su in proprio un numero di successo nei locali eleganti, assieme a Molly (Rooney Mara) che faceva la “ragazza elettrica” ed è venuta via con lui. Il passo seguente nella ruota degli inganni è lo spiritismo: evocare i defunti per i parenti in lutto. L'incontro con la gelida psicologa Lilith Ritter (Cate Blanchett) porta Stan ad architettare una gigantesca truffa ai danni di un uomo potente e pericoloso, l'industriale Grindle (Richard Jenkins) – e lo aspetta il disastro.
La sceneggiatura di Del Toro e Kim Morgan è fedele a Gresham, pur dovendo “asciugare” il variegato romanzo e spostando leggermente avanti l'epoca, dalla Grande Depressione agli anni seguenti, in modo da menzionare sullo sfondo la guerra. La necessità di stringere ha portato a sacrificare alquanto il personaggio di Molly, più complesso nel romanzo; nel contempo viene arricchita la figura di Pete. Lo stesso Stan è un imbroglione in qualche modo più umano e vulnerabile dell'egomane semi-psicopatico del romanzo.
Del Toro, che si consente anche un paio di arcaizzanti chiusure in iride, costruisce questo inusuale noir d'epoca con scelte raffinate nelle inquadrature e nel montaggio (grande il palloncino che vola via quando entra in gioco per la prima volta lo spiritismo), intessendo una rete di intelligenti rimandi. La violenza con cui Stan colpisce il geek all'inizio ci lascia il ricordo di una vena di violenza segreta che verrà attivato più tardi. E alla fine, quando Stan in fuga si nasconde nel vagone merci dietro gabbie di polli, questa è un'allusione che anticipa il suo destino.
E' denso il tessuto di riferimenti alla memoria cinematografica. Non soltanto l'ambiente dei fenomeni viventi e delle attrazioni fieristiche (ombra di Tod Browning e Freaks! Non per nulla compare di sfuggita anche un pinhead). Per esempio, la dimora di Grindle, che svetta isolata come un truce castello in mezzo al nulla, e i gelidi viali regolari del suo parco, tutto ghiacciato sotto la neve, pur senza una diretta somiglianza materiale non possono non ricordare la Xanadu di Orson Welles, altro sepolcro volontario di un uomo incattivito.
Il romanzo di Gresham è attraversato da un'idea di destino implacabile, rappresentato dai tarocchi (ogni capitolo è introdotto da uno degli Arcani Maggiori), e anche il film è una cupa moralità, con una forte dimensione simbolica. Basta guardare la scena, nella parte iniziale, in cui Stan e l'imbonitore (Willem Dafoe) sono alla ricerca del geek che è scappato dalla gabbia. Cercandolo, Stan penetra dentro la Casa della Perdizione, un baraccone con ingenui dipinti sui sette peccati capitali. E' un'autentica – e appropriata – discesa all'Inferno; né fa meraviglia che il geek si sia nascosto lì. Questo film è la cronaca di un hybris e della conseguente caduta. Ove naturalmente neppure il nome di Lilith è casuale. Il film, iniziato con una fiera e un geek, si conclude con un'altra fiera e un altro geek. Il suo andamento è circolare, simboleggiato dalla grande ruota illuminata della fiera, la prima cosa che vediamo di essa, con Stan, dal finestrino della corriera.
Quando la menzogna finisce, il volto di Dio ti guarda fisso”, diceva Pete a Stan mettendolo in guardia. Ma qui – non è una sorpresa per il paganesimo surreale di Del Toro – la figura che “ti guarda fisso” è un mostro, il suo sguardo è uno sguardo morto. All'interno di una collezione di feti conservati in alcool – esseri “inadatti alla vita”, intona l'imbonitore – troneggia, conservato nel suo vaso, Enoch, che “ha ucciso sua madre durante il parto”: una creatura mostruosa morta poco dopo la nascita, tagliata a metà nell'autopsia e malamente ricucita, un macrocefalo con un occhio solo enorme al centro della fronte. L'occhio al centro della fronte è simbolo della visione assoluta (analogia disturbante, c'è anche sulla benda che Stan si mette nei suoi show di lettura del pensiero) – e il feto orribile nel suo vaso compare più volte nel film; su di esso cade lo sguardo di Stan quando è a terra picchiato da Bruno (Ron Perlman); lo rivediamo nel finale; e inoltre la mdp scorre in dettaglio sul suo corpo durante i primi titoli di coda. Così, Enoch sembra presiedere al film come una morta orrenda divinità.

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