Guillermo Del Toro
Nel suo cinema
Guillermo Del Toro ha sovente mostrato una traccia (talvolta anche di
più: La forma dell'acqua) di compiaciuta autoindulgenza. Non
però ne La fiera delle illusioni – Nightmare
Alley (dal romanzo di W.L. Gresham Nightmare Alley, edito
in Italia da Sellerio): col suo film probabilmente più maturo, il
regista messicano-hollywoodiano crea un'opera di rigoroso
(neo)classicismo, che ricaccia – al limite della freddezza – le
emozioni all'interno del racconto – e dei simboli.
Al centro dell'universo
del film sta la descrizione dei “fenomeni” delle fiere viaggianti
(siamo tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta), tra cui il
geek, il selvaggio “uomo bestia” che mangia galline vive:
in realtà un povero alcoolizzato sfruttato dall'imbonitore. Alla
fiera arriva Stan Carlisle (Bradley Cooper), intelligente, disonesto
e di bell'aspetto, in fuga da un passato che sarà rivelato appieno
in un triplo flashback invertito alla fine del film. Da Zeena (Toni
Collette), incrocio tra amante e madre sostitutiva, e dal suo marito
ubriacone Pete (David Strathaim), Stan impara a fare il “lettore
del pensiero”, imbrogliando i “gonzi” grazie a ottime doti di
intuizione che decifrano i segnali involontari. I grandi temi del
film sono appunto la finzione e la nostra invincibile necessità
inconscia di rivelarci. La confessione involontaria come filo rosso
del racconto. “Cosa voglio? Essere scoperto, come chiunque altro”,
sentiamo nella surreale seduta psicoanalitica cui Stan è sottoposto
dalla dottoressa Ritter.
Lasciata la fiera, Stan
mette su in proprio un numero di successo nei locali eleganti,
assieme a Molly (Rooney Mara) che faceva la “ragazza elettrica”
ed è venuta via con lui. Il passo seguente nella ruota degli inganni
è lo spiritismo: evocare i defunti per i parenti in lutto.
L'incontro con la gelida psicologa Lilith Ritter (Cate Blanchett)
porta Stan ad architettare una gigantesca truffa ai danni di un uomo
potente e pericoloso, l'industriale Grindle (Richard Jenkins) – e
lo aspetta il disastro.
La sceneggiatura di Del
Toro e Kim Morgan è fedele a Gresham, pur dovendo “asciugare” il
variegato romanzo e spostando leggermente avanti l'epoca, dalla
Grande Depressione agli anni seguenti,
in modo da menzionare sullo sfondo la guerra. La necessità di
stringere ha portato a sacrificare alquanto il personaggio di Molly,
più complesso nel romanzo; nel contempo viene arricchita la figura
di Pete. Lo stesso Stan è un imbroglione in qualche modo più umano
e vulnerabile dell'egomane semi-psicopatico del romanzo.
Del Toro, che si
consente anche un paio di arcaizzanti chiusure in iride, costruisce
questo inusuale noir d'epoca con scelte raffinate nelle inquadrature
e nel montaggio (grande il palloncino che vola via quando entra in
gioco per la prima volta lo spiritismo), intessendo una rete di
intelligenti rimandi. La violenza con cui Stan colpisce il geek
all'inizio ci lascia il ricordo di una vena di violenza segreta che
verrà attivato più tardi. E alla fine, quando Stan in fuga si
nasconde nel vagone merci dietro gabbie di polli, questa è
un'allusione che anticipa il suo destino.
E' denso il tessuto di
riferimenti alla memoria cinematografica. Non soltanto l'ambiente dei
fenomeni viventi e delle attrazioni fieristiche (ombra di Tod
Browning e Freaks! Non per nulla compare di sfuggita anche un
pinhead). Per esempio, la dimora di Grindle, che svetta
isolata come un truce castello in mezzo al nulla, e i gelidi viali
regolari del suo parco, tutto ghiacciato sotto la neve, pur senza una
diretta somiglianza materiale non possono non ricordare la Xanadu di
Orson Welles, altro sepolcro volontario di un uomo incattivito.
Il romanzo di Gresham è
attraversato da un'idea di destino implacabile, rappresentato dai
tarocchi (ogni capitolo è introdotto da uno degli Arcani Maggiori),
e anche il film è una cupa moralità, con una forte dimensione
simbolica. Basta guardare la scena, nella parte iniziale, in cui Stan
e l'imbonitore (Willem Dafoe) sono alla ricerca del geek che è
scappato dalla gabbia. Cercandolo, Stan penetra dentro la Casa della
Perdizione, un baraccone con ingenui dipinti sui sette peccati
capitali. E' un'autentica – e appropriata – discesa all'Inferno;
né fa meraviglia che il geek si sia nascosto lì. Questo film
è la cronaca di un hybris e della conseguente caduta. Ove
naturalmente neppure il nome di Lilith è casuale. Il film, iniziato
con una fiera e un geek, si conclude con un'altra fiera e un
altro geek. Il suo andamento è circolare, simboleggiato dalla
grande ruota illuminata della fiera, la prima cosa che vediamo di
essa, con Stan, dal finestrino della corriera.
“Quando la menzogna
finisce, il volto di Dio ti guarda fisso”, diceva Pete a Stan
mettendolo in guardia. Ma qui – non è una sorpresa per il
paganesimo surreale di Del Toro – la figura che “ti guarda fisso”
è un mostro, il suo sguardo è uno sguardo morto. All'interno di una
collezione di feti conservati in alcool – esseri “inadatti alla
vita”, intona l'imbonitore – troneggia, conservato nel suo vaso,
Enoch, che “ha ucciso sua madre durante il parto”: una creatura
mostruosa morta poco dopo la nascita, tagliata a metà nell'autopsia
e malamente ricucita, un macrocefalo con un occhio solo enorme al
centro della fronte. L'occhio al centro della fronte è simbolo della
visione assoluta (analogia disturbante, c'è anche sulla benda che
Stan si mette nei suoi show di lettura del pensiero) – e il feto
orribile nel suo vaso compare più volte nel film; su di esso cade lo
sguardo di Stan quando è a terra picchiato da Bruno (Ron Perlman);
lo rivediamo nel finale; e inoltre la mdp scorre in dettaglio sul suo
corpo durante i primi titoli di coda. Così, Enoch sembra presiedere
al film come una morta orrenda divinità.
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