venerdì 11 febbraio 2022

Macbeth

Joel Coen 

La storia del cinema è ricca di versioni del Macbeth: ora capolavori (Orson Welles o la rilettura giapponese di Kurosawa), ora di buon livello (Roman Polanski), ora mediocri (Justin Kurzel con Michael Fassbender e Marion Cotillard). Bene, conosciamo i fratelli Joel ed Ethan Coen, cantori dei grandi piani e della loro sconfitta nelle forme moderne della commedia e del noir. Ma il loro tema fisso – l’assurdità dell’universo e il precipitare della follia umana – si sposa assai bene con la concezione del Macbeth shakespeariano, tragedia nichilista del rovesciamento del senso (Fair is foul and foul is fair”, “Ciò che è bello è brutto, ciò che è brutto è bello”, intonano le streghe) e della colpa. Per questa via Joel Coen (stavolta in solitaria) è arrivato alla tragedia shakespeariana con un buon The Tragedy of Macbeth (Macbeth nella versione italiana su Apple TV+) in bianco e nero e in formato 1,33:1, con la straordinaria fotografia di Bruno Delbonnel.
All’opposto di Polanski che li aveva immaginati giovanissimi, qui Macbeth (Denzel Washington) e Lady Macbeth (Frances McDormand) sono già una coppia matura all’inizio dell’azione, e decisamente vecchi alla fine. La loro desolazione finale ha le forme di un’infinita stanchezza. Il viso scarno di Lady Macbeth, sempre più estraniata dal marito; la spossatezza morale di Macbeth – guardatelo seduto come afflosciato sul trono quando viene invaso (fuori campo) il castello. Anche nel suo modo di battersi alla fine c’è, potremmo dire, solo un residuo di professionalità: all’inizio, contro Siward il giovane, c’è il disprezzo del vecchio soldato contro un dilettante; poi, contro Macduff, la vuotezza del giocarsi il tutto per tutto senza che rimanga uno scopo.
Mentre l'inumanità delle streghe – forze del male, dell’alienità e del disordine – è splendidamente espressa nella superba interpretazione “una e trina” da parte di Kathryn Hunter, una grande attrice fisica e quasi una contorsionista (si può arrivare a dire che fornisce la figura più memorabile di tutto il film). Da notare poi la ridefinizione del personaggio di Ross (Alex Hassell), ambiguo testimone nel quale si assommano qui il cortigiano, il messaggero e quel piccolo enigma shakespeariano che è il “terzo sicario”, in senso velatamente demoniaco, com’è suggerito dal finale.
Ha un ruolo centrale la scenografia di Stefan Dechant, sulla base della quale Joel Coen incrocia il linguaggio cinematografico dell’inquadratura e del montaggio (primi piani, dettagli, campi/controcampi) con l’astrazione di una messa in scena teatrale, ancora più marcata di quella di Welles, che è una sorta di nume ispiratore dell’opera in un film che sembra un compendio di riferimenti cinematografici. Il dialogo fra l’astratto e il concreto origina bellissime soluzioni visive: nello svelamento della famosa falsa profezia che inganna Macbeth, l’avanzata della foresta di Birnam verso Dunsinane – con un mare di frasche in mezzo a un corridoio di alberi – potrebbe essere la più efficace mai vista al cinema. Una concezione quasi espressionista, con corridoi di cemento, spazi aperti artificiali e simbolici, la luce che entra come materia al pari della pietra, l’acqua come elemento connesso alle forze oscure, crea un mondo di vuota desolazione.

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