Joel Coen
La
storia del cinema è ricca di versioni del Macbeth: ora
capolavori (Orson Welles o la rilettura giapponese di Kurosawa), ora
di buon livello (Roman Polanski), ora mediocri (Justin Kurzel con
Michael Fassbender e Marion Cotillard). Bene,
conosciamo i fratelli Joel ed Ethan Coen, cantori dei grandi piani e
della loro sconfitta nelle forme moderne della commedia e del noir.
Ma il loro tema fisso – l’assurdità dell’universo e il
precipitare della follia umana – si sposa assai bene con la
concezione del Macbeth
shakespeariano,
tragedia nichilista del rovesciamento del senso (“Fair
is foul and foul is fair”,
“Ciò che è bello
è brutto, ciò che è
brutto è bello”,
intonano le streghe) e
della colpa. Per questa via Joel Coen (stavolta
in solitaria) è arrivato
alla tragedia shakespeariana con un buon The
Tragedy of Macbeth
(Macbeth
nella versione italiana
su Apple TV+) in
bianco e nero e in formato
1,33:1,
con la straordinaria
fotografia di Bruno
Delbonnel.
All’opposto
di Polanski che li aveva immaginati giovanissimi, qui Macbeth (Denzel
Washington) e Lady Macbeth (Frances McDormand) sono già
una
coppia matura all’inizio dell’azione, e decisamente vecchi alla
fine. La loro desolazione finale ha le forme di un’infinita
stanchezza. Il viso scarno di Lady Macbeth, sempre più estraniata
dal
marito; la spossatezza morale di Macbeth – guardatelo seduto
come afflosciato
sul trono quando viene invaso (fuori campo) il castello. Anche
nel
suo modo di battersi alla
fine c’è,
potremmo dire, solo un
residuo
di
professionalità: all’inizio, contro Siward il giovane, c’è
il
disprezzo del vecchio soldato contro un dilettante; poi, contro
Macduff, la vuotezza del giocarsi il tutto per tutto senza che
rimanga uno scopo.
Mentre
l'inumanità delle streghe – forze del male, dell’alienità e del
disordine – è splendidamente espressa nella superba
interpretazione “una e trina” da parte di Kathryn Hunter, una
grande attrice fisica e quasi una contorsionista (si
può arrivare
a
dire che fornisce
la figura più memorabile di tutto il film).
Da
notare poi
la
ridefinizione del
personaggio
di
Ross
(Alex
Hassell), ambiguo testimone nel
quale si assommano
qui
il
cortigiano, il messaggero e quel piccolo enigma shakespeariano che è
il “terzo sicario”, in
senso velatamente
demoniaco,
com’è suggerito
dal finale.
Ha
un ruolo centrale la
scenografia
di
Stefan Dechant, sulla base
della
quale Joel Coen incrocia il
linguaggio cinematografico dell’inquadratura e del montaggio (primi
piani, dettagli, campi/controcampi) con l’astrazione di una messa
in scena teatrale, ancora più marcata di quella di Welles, che
è una sorta di nume ispiratore dell’opera in un
film che sembra un compendio di riferimenti cinematografici. Il
dialogo fra l’astratto e il concreto origina bellissime soluzioni
visive: nello svelamento
della famosa falsa profezia che inganna Macbeth,
l’avanzata della foresta di Birnam verso Dunsinane – con
un mare di frasche
in mezzo a un corridoio di alberi – potrebbe
essere la più efficace
mai vista al cinema. Una
concezione quasi espressionista, con
corridoi di cemento, spazi
aperti artificiali e
simbolici, la luce che entra
come materia
al pari della pietra, l’acqua come elemento connesso
alle forze oscure, crea un
mondo di vuota desolazione.
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