sabato 26 febbraio 2022

Piccolo corpo

Laura Samani

Per parlare dello splendido Piccolo corpo di Laura Samani (fotografato da Mitja Licen, montato da Chiara Dainese, prodotto da Nadia Trevisan e Alberto Fasulo) si potrebbe partire da un magro pasto in montagna – consumato su un ripido declivio coperto dal tappeto giallo delle foglie cadute – composto di funghi crudi e nocciole, quelle poche nocciole che non sono fraides, marcite (il film è parlato in veneto e friulano, le due lingue del Friuli, con sottotitoli italiani). C’è qui come altrove una stupefacente immediatezza sensoriale, e immediatezza è la parola chiave dell’opera. Immediatezza delle sensazioni, del tempo, del cammino, delle atmosfere – una materialità su tutti i piani che dal concreto estremo sfiora il metafisico, e che fa pensare al miglior cinema di Ermanno Olmi, o nel campo contemporaneo a Michelangelo Frammartino.
Il film (avviso: questo testo contiene spoiler basilari) si ambienta nel Friuli ancora arcaico del primo Novecento. Su un’isola di pescatori, Agata (Celeste Cescutti) partorisce una bambina morta prima di poter essere battezzata. In base alla concezione (di allora) della Chiesa cattolica, la bambina dovrà passare l’eternità nel Limbo; e Agata, risponde alla sua domanda il prete del luogo, potrà rivederla soltanto nei sogni.
Il marito si rassegna; Agata, che l’ha portata in grembo e partorita con dolore, no. Un compaesano – che due secoli prima sarebbe stato un benandante – le parla di un santuario in Val Dolais, sulle montagne, dove i neonati morti si risvegliano miracolosamente per il tempo di un respiro, quello che occorre per il battesimo. Agata disseppellisce di notte il corpicino e, con la bambina morta dentro una cassa legata sulla schiena, fugge dall’isola e si avventura in un faticoso viaggio a piedi verso il santuario, attraverso il territorio sconosciuto della pianura e le montagne. Per strada incontra un giovane moralmente ambiguo soprannominato Lince (Ondina Quadri), che sembra volerla aiutare ma ha i suoi piani – ma che comunque finirà come compagno del viaggio.
Fin dall’inizio – dove il canto a “Maria sensa pecà e sensa macia” risuona sui titoli di testa, e l'apertura è sul rito apotropaico per la donna incinta (“Fora la disgrassia, entra la grassia, disgrassia va via, entra Maria”) – il film va oltre quella che potrebbe essere la descrizione dall'esterno di una credenza popolare per aprirsi a una dimensione di intensità e meraviglia. Così, la concretezza della sabbia e delle piante salmastre dell’isola, delle strade di montagna e dell’erta scivolosa di foglie morte, dell’aria fredda del lago e della neve, si lega alla concretezza delle credenze e delle superstizioni. Come quella montagna che inghiotte le donne, e che Agata sfida “travestendosi”, annerendosi il viso con la terra prima di addentrarsi. Tutto è magico, tutto conserva una risonanza primigenia. Un mondo che ci ricorda l’etnologia “disponibile” di Carlo Ginzburg.
E’, il film, un viaggio non solo geografico, che va dal “qui ed ora” (ad Agata familiare) dell’isola a un progressivo rarefarsi fino una dimensione finale che si tinge di un crudele tono fiabesco. Paragoniamo due episodi relativi al valore di scambio: se all’inizio del viaggio il valore del latte materno nei seni riporta ancora a una determinazione storica di classe (tentano di rapire Agata per cederla come balia a una famiglia facoltosa), verso la conclusione il valore dei capelli che le donne sagge le tagliano dopo averla salvata dall’emorragia è pur sempre valore di scambio, mercantile, ma viene assimilato e come contagiato dal resto della sequenza, per cui tutto ha un sapore di rito antico.
Quasi tutti i personaggi sono femminili – anche Lince si rivela donna, nei suoi abiti di maschio – e sono portatori di un antico sapere femminile che si è nascosto e perdura sotto l’ordine maschile della società. Tutta una società femminile emerge in primo piano nel film. Donna è la brigantessa a capo della banda, donne sono le guaritrici dove Lince porta Agata in emorragia, donna è la sacerdotessa del santuario. E’ significativo che solo le donne hanno, nel racconto, il privilegio di vedere il corpo della bambina nella cassa: la brigantessa, la sacerdotessa, e la stessa Lince (prima ingannato da Agata che come in una fiaba gli promette metà del contenuto della cassa) solo alla fine, quando la sua femminilità ci è stata svelata. Prima, c’è per lei un passaggio intermedio, di transizione: Agata le confessa la verità sul contenuto della cassa, senza mostrarglielo, e Lince ha un momento di ripulsa in cui esprime la sua paura: “Mi fâs pore… No si dà un non as robes muartes”.
Questa centralità dell’elemento femminile vale anche, e soprattutto, per le credenze. Quando Agata all’inizio del film, nel rito apotropaico già citato che invoca Maria, si fa un taglio sulla mano e poi fa colare il sangue nell'acqua del mare, è con tutta evidenza un rito antichissimo, precristiano, e se lo colleghiamo all’universalità femminile del film, ci rendiamo che la Maria venerata nel film (non il Padreterno) è un esempio di sincretismo religioso e assimilazione: dietro di lei traspare la divinità femminile, la Grande Madre. Non ci stupiamo quindi di vedere alla fine che a lei è dedicato il santuario, con la sua immagine corredata dagli ex voto.
Con il passaggio del lago, oltre il quale sta il santuario, inizia la parte fantastica e simbolica del film. Ricordiamo che in precedenza le donne sagge dicevano che nessuna era tornata indietro a raccontarne (e avevano ammonito Agata: “Pensitu di meritati chest miracul?”). Il battelliere che porta Agata sul lago – leggiamo nei titoli di coda – si chiama Caronte.
Questo santuario si trova oltre la vita – e la conclusione nella fredda pace delle acque profonde del lago, dove Agata può abbracciare la sua bambina, rappresenta una sublimazione del viaggio nell’acqua, l’elemento femminile per eccellenza; e il nome della piccola ora battezzata è Mare.

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