Orson Welles
La
signora di Shanghai inizia in un tono fiabesco che rappresenta
anche una chiave di lettura. Elsa Bannister/Rita Hayworth appare nel
parco in carrozza, O’Hara/Welles (che la salva da un’aggressione)
la paragona a una principessa; lei in seguito paragonerà lui a un
cavaliere errante. Nota l’impennata del cavallo alla vista di un
taxi, quando lui la riporta a casa, col classico tassista newyorkese
che si incavola: sembrerebbe il passaggio dalla fiaba alla realtà.
Ma è proprio la realtà? Perché ormai O’Hara, solo per aver visto
Elsa, è stato risucchiato in un mondo stregato, popolato di
uomini (e animali) mostruosi.
Il
film ci racconta varie cose sul giovane marinaio: reduce della Guerra
di Spagna, aspirante romanziere, anche ex sindacalista portuale
(“notorious waterfront agitator”, dice di lui la radio
parlando del processo); soprattutto, ci dice che è irlandese; su
questo il film insiste molto, anche menzionando il suo accento. E
questa connotazione irlandese non ci stimola forse a pensare ai
rapimenti di giovani ingenui da parte del Piccolo Popolo? Non è
qualcosa di simile che accade a O’Hara? Non si può non ricordare
una battuta fondamentale di Elsa mentre discute sulla spiaggia con
gli orribili Bannister e Grisby: “A chi potrebbe piacere di vivere
con noi?”
In
effetti tutto il film sembra svolgersi in stato di ipnosi, o di
incantamento; la sua atmosfera malata e voyeuristica sfiora il
metafisico. Quando Grisby, sullo sfondo di un dirupo, parlando come
se fosse in trance, fa a O’Hara la paradossale proposta di
ucciderlo, allorché se ne va (“So long, fella”) sembra
cadere giù, sparire, come una manifestazione demoniaca che si
dissolve dopo la tentazione.
Alla
base de La signora di Shanghai sta un’opposizione radicale
fra sanità e follia; la sanità è patrimonio di O’Hara, e anche
di personaggi umili come la cameriera dei Bannister, o i suoi amici
marinai; ma il mondo della follia non si limita affatto alla
consorteria di squali umani fra cui O’Hara è finito. Investe tutto
il mondo esterno, quello dei turisti di Acapulco, per esempio, o
quello della legge. A tale proposito, vedi, naturalmente, la sequenza
del folle processo, davvero alla Alice nel paese delle meraviglie;
ma vedi anche quei poliziotti vagamente comici che fermano O’Hara
dopo l’omicidio (quasi dei Keystone Cops - figure, queste, che
incantavano Welles: ne inserisce uno anche in The Hearts of Age).
Inutile osservare che, ne La signora di Shanghai, la grande
metafora del mondo è la Crazy House del finale (dove fra l’altro
il cavaliere errante finisce in bocca a un drago).
Lungo
tutto il racconto la voce narrante di O’Hara ci ripete
ossessivamente quanto è stato ingenuo (fathead, boob).
Troppo ossessivo per non essere sospetto, in un film di romanticismo
folle ed esasperato (guai a prenderlo solo come una satira
dell’immagine divistica, come suggeriscono alcune interpretazioni
un po’ moralistiche) - dove il volto e il corpo di Rita Hayworth si
stagliano come un incubo erotico. Ha ragione Yann Tobin: qualunque
cosa si possa dire di lui, Harry Cohn non era nel torto quando fece
inserire a Welles i primi piani.
(Citizen
Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)
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