Orson Welles
Autore
di grandi film da Shakespeare, shakespeariano Orson Welles lo è
stato in tutto il suo cinema, dove ritorna ossessivamente il concetto
dell’individuo titanico contrapposto alla mediocrità della massa.
Beninteso, nella democrazia americana, nei pubblici diritti, Welles -
politicamente un democratico rooseveltiano - vede il fondamento del
vivere civile. Tuttavia il suo cinema è popolato di giganti più
grandi del bene e del male. In un bellissimo libro, Orson Welles:
The Stories of His Life, Peter Conrad analizza perfettamente la
feconda scissione presente in Welles, per cui il suo ritratto
di figure faustiane non è pura mimesi interpretativa, bensì la
messa in scena spettacolare, la resa artistica di una duplicità
interiore.
Fra
questi personaggi davvero shakespeariani il più memorabile, accanto
al “cittadino Kane”, è certamente lo Hank Quinlan de L’infernale
Quinlan (e in misura minore come profondità Mr. Arkadin). Ma che
dire di Franz Kindler, criminale nazista rifugiato in America sotto
falso nome ne Lo straniero? Certamente Welles odia la figura
che interpreta; merita ricordare che Lo straniero fu il primo
film a inserire al proprio interno filmati autentici dei campi di
sterminio, per sottolineare la profondità del male. Però per quanto
abietto sia Kindler, egli torreggia sopra una comunità di pigmei.
Vi
sono nella città di Harper due vecchi saggi: il proprietario del
drugstore (un’interpretazione di Billy Hale che ruba la
scena a tutti) e il vecchio giudice della Corte Suprema, appartato e
inascoltato dalla sua stessa figlia. Il primo richiama una “vecchia
America” nostalgica (si pensa ai concittadini degli Amberson); il
secondo, quei circoli di intellettuali democratici che Welles
frequentava. Ma gli altri!
Una
satira feroce investe l’intero paese. L’ottusità con venature
isteriche dell’ignara moglie di Rankin/Kindler, Mary/Loretta Young,
che è l’ultima ad accettare di rendersi conto di ciò che è
evidente. Le zitelle che si bevono le ciance di Kindler ripetendo
garrule “Lei è un professore smemorato”. I ragazzotti della high
school che nel bosco giocano a rimpiattino (fra l’altro qui il
film allude ironicamente a se stesso, come con gli orologi, il cui
meccanismo troppo complicato si guasta). Guardiamoli correre giulivi
per il bosco, con uno che semina chili di tracce! Ricordano
veramente, per leziosità, i coniglietti di dubbia virilità di Tex
Avery. Nonostante il discorso di Edward G. Robinson sulla gente
semplice che non può più essere ingannata, ne Lo straniero
Welles non mostra davvero una grande opinione della massa.
Questo
film che Welles ingiustamente non amava sprizza un delizioso humour
noir. Si pensi alla scena blasfema dell’assassinio mentre
Kindler e Meinike, un nazista evaso, pregano assieme, scena che del
resto viene dopo uno dei più esilaranti scherzi sulla divinità che
il cinema ci abbia mai dato (la rivelazione dell’autorità cui
Meinike obbedisce). O a Kindler che - tedesco nell’anima! - si
prepara i suoi appunti per il delitto, da buon professore prima della
lezione.
Consapevolissimi
eccessi, angolazioni ancora più audaci del solito, giochi
espressionistici di ombre, e un grande finale barocco (“Dick
Tracy”, fumettistico, diceva Welles): un delirio, l’unico modo
possibile per girare questo film giocato fra la dismisura della
narrazione e il titanismo wellesiano. Ma il tema wellesiano
principale che congiunge questo film alla sua filmografia è che si
tratta di un’altra sfaccettatura del falso; mundus vult
decipi; Welles è sempre il prestigiatore.
(Citizen
Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)
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