Orson Welles
Ne
Il processo
si affrontano tre opzioni di fondo poco amalgamate. La prima è di
contestualizzare il racconto di Kafka nella grande tragedia del
secolo, traducendolo in una metafora del totalitarismo (il che
suggerisce larga parte dell’imagerie
del film, dall’orwelliana sala delle dattilografe agli accusati
laceri o seminudi, col loro numero, davanti alla sede della Corte
Suprema, che fanno pensare ai campi di concentramento). La seconda è
quella di riscrivere Kafka reinventando, in forme adatte alla
narrazione cinematografica, un personale incubo kafkiano di Welles,
ove l’apologo viene caratterizzato dal filo rosso del rapporto di
K. con le donne e il sesso, che attraversa il film rendendolo un
grande e contorto incubo barocco sulla sessualità; e questa è
probabilmente la scelta narrativa più proficua. La terza, la meno
felice, è quella di popolarizzare Kafka, quasi di realizzare un
Everybody’s Kafka
filmico, a costo di ricamare il film con dialoghi para-kafkiani che
mantengono il sapore dell’imitazione divulgativa e didattica.
Rimane
l’ipotesi che Kafka sia il meno adatto degli scrittori ad essere
tradotto nella natura indexicale
del cinema (non per nulla la pagina più autenticamente kafkiana de
Il processo
è l’apologo iniziale, recitano dalla voce di Welles sulle fredde
immagini delle composizioni di spilli di Alexeieff).
E’
interessante che di fronte a Kafka Welles rinunci proprio - quasi
come intimidito - ai suoi barocchismi più neri e malsani. Nella
filmografia di Welles l’anti-Processo
è
Mr. Arkadin (Rapporto
confidenziale). Perché
ambedue i film sono grandi affreschi di follia - ne Il
processo, con una
resistenza. Ma la visione, che ci è squadernata in Arkadin,
della follia che si nasconde dentro il reale (i due comici e
paradossali poliziotti di Monaco, il lurido bric-à-brac
dove si aggira borbottando il ripugnante antiquario Michael Redgrave,
il grande orrore carnale del circo delle pulci che banchettano sul
braccio nudo di Mischa Auer) ci appare apocalittica proprio perché
si cela nella realtà concreta di uno sviluppo romanzesco, per
delirante e fiabesco che possa essere; è il volto assurdo del reale.
L’irrazionalità degli avvenimenti e dei percorsi de Il
processo viceversa non
è unheimlich,
perché è il volto assurdo dell’irreale - ovvero del simbolico,
dell’allegoria pura - cioè un assurdo di secondo grado.
Ne
Il processo,
Welles rifugge dall’eccesso barocco. Ne rimangono solo isolati
brividi, di solito connessi appunto a quel discorso sulla sessualità
che si può indicare come il tratto più alto del film: Jeanne Moreau
entraîneuse
sfatta di stanchezza in cui si oppone il discorso del corpo a quello
delle parole; Romy Schneider che mostra a K. - come in un gioco
proibito di bambini - la membrana, teneramente oscena, che unisce le
sue dita; o naturalmente le ragazzine indemoniate che urlano e
beffeggiano attraverso gli interstizi delle pareti dello studio di
Titorelli.
Ma
altrove, nemmeno l’abiezione di Bloch/Akim Tamiroff - fatta salva
la superba interpretazione del grande attore wellesiano - raggiunge
lo stesso livello di turpitudine malata che definisce certe figure de
La signora di Shanghai
(o che si mischia alla
comicità nello stesso Akim Tamiroff de L’infernale
Quinlan).
Rimane,
certo, la grandezza dei percorsi:
ne Il processo
Welles costruisce la topografia artificiale forse più bella di tutto
il suo cinema, dove lo spazio (ma anche il tempo) si piega su se
stesso. Ma questo è un discorso troppo scontato per non lasciarlo
qui.
(Citizen
Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)
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