lunedì 29 settembre 2014

Il processo

Orson Welles
Ne Il processo si affrontano tre opzioni di fondo poco amalgamate. La prima è di contestualizzare il racconto di Kafka nella grande tragedia del secolo, traducendolo in una metafora del totalitarismo (il che suggerisce larga parte dell’imagerie del film, dall’orwelliana sala delle dattilografe agli accusati laceri o seminudi, col loro numero, davanti alla sede della Corte Suprema, che fanno pensare ai campi di concentramento). La seconda è quella di riscrivere Kafka reinventando, in forme adatte alla narrazione cinematografica, un personale incubo kafkiano di Welles, ove l’apologo viene caratterizzato dal filo rosso del rapporto di K. con le donne e il sesso, che attraversa il film rendendolo un grande e contorto incubo barocco sulla sessualità; e questa è probabilmente la scelta narrativa più proficua. La terza, la meno felice, è quella di popolarizzare Kafka, quasi di realizzare un Everybody’s Kafka filmico, a costo di ricamare il film con dialoghi para-kafkiani che mantengono il sapore dell’imitazione divulgativa e didattica.
Rimane l’ipotesi che Kafka sia il meno adatto degli scrittori ad essere tradotto nella natura indexicale del cinema (non per nulla la pagina più autenticamente kafkiana de Il processo è l’apologo iniziale, recitano dalla voce di Welles sulle fredde immagini delle composizioni di spilli di Alexeieff).
E’ interessante che di fronte a Kafka Welles rinunci proprio - quasi come intimidito - ai suoi barocchismi più neri e malsani. Nella filmografia di Welles l’anti-Processo è Mr. Arkadin (Rapporto confidenziale). Perché ambedue i film sono grandi affreschi di follia - ne Il processo, con una resistenza. Ma la visione, che ci è squadernata in Arkadin, della follia che si nasconde dentro il reale (i due comici e paradossali poliziotti di Monaco, il lurido bric-à-brac dove si aggira borbottando il ripugnante antiquario Michael Redgrave, il grande orrore carnale del circo delle pulci che banchettano sul braccio nudo di Mischa Auer) ci appare apocalittica proprio perché si cela nella realtà concreta di uno sviluppo romanzesco, per delirante e fiabesco che possa essere; è il volto assurdo del reale. L’irrazionalità degli avvenimenti e dei percorsi de Il processo viceversa non è unheimlich, perché è il volto assurdo dell’irreale - ovvero del simbolico, dell’allegoria pura - cioè un assurdo di secondo grado.
Ne Il processo, Welles rifugge dall’eccesso barocco. Ne rimangono solo isolati brividi, di solito connessi appunto a quel discorso sulla sessualità che si può indicare come il tratto più alto del film: Jeanne Moreau entraîneuse sfatta di stanchezza in cui si oppone il discorso del corpo a quello delle parole; Romy Schneider che mostra a K. - come in un gioco proibito di bambini - la membrana, teneramente oscena, che unisce le sue dita; o naturalmente le ragazzine indemoniate che urlano e beffeggiano attraverso gli interstizi delle pareti dello studio di Titorelli.
Ma altrove, nemmeno l’abiezione di Bloch/Akim Tamiroff - fatta salva la superba interpretazione del grande attore wellesiano - raggiunge lo stesso livello di turpitudine malata che definisce certe figure de La signora di Shanghai (o che si mischia alla comicità nello stesso Akim Tamiroff de L’infernale Quinlan).
Rimane, certo, la grandezza dei percorsi: ne Il processo Welles costruisce la topografia artificiale forse più bella di tutto il suo cinema, dove lo spazio (ma anche il tempo) si piega su se stesso. Ma questo è un discorso troppo scontato per non lasciarlo qui.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

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