Orson Welles
Questo
film inizia con un aereo in volo, l’aereo di Arkadin, vuoto; con il
suo amore per cominciare dal fondo della storia, Welles parte da
un’assenza.
La
festa in maschera di Arkadin, ispirata a Goya, è la scena
generatrice del film, che è tutta una raccolta di maschere
grottesche. Sulla folla regna Arkadin/Welles. Com’è solenne la sua
apparizione, con una mascherina bianca! Ma Arkadin è la maschera di
una maschera. Infatti sotto ci sono l’immensa barba, il solito naso
finto di Welles, una parrucca di capelli rigidi (che serve a rendere
il viso di Welles meno rotondo di quello reale). Cosa rimane di Orson
Welles sotto tutto questo trucco? Solo gli occhi. Questa figura che
si muove come un armadio torreggiante sui suoi ospiti/vittime
(Welles, che di suo non era agile, qui volutamente è più massiccio
e lento che mai) non è niente, se non un paio d’occhi che spuntano
dal trucco teatrale. Domanda, metaforica sul piano diegetico: non
sarà finta quella barba?
E
allora, quando Arkadin è scomparso dal suo aereo, cosa si è
lasciato dietro? Un niente, uno sbuffo di fumo. Proprio come la
Maschera della Morte Rossa nel racconto di Poe una volta abbrancata
si dissolve in aria, Arkadin è un nulla omicida dietro la maschera:
un fantasma, una leggenda. Il suo corpo è un’enorme menzogna
proprio come la sua vita. Per questo vediamo solo un involucro senza
contenuto; lui è scomparso - scomparso, più che morto (il che apre
ipotesi illegittime ma affascinanti sul piano diegetico).
Quando
Van Stratten inganna la gente all’aeroporto facendo loro credere
che quel signore che offre soldi non è Arkadin, ecco che a un uomo
dall’identità inventata viene tolta proprio quell’identità,
iniziando quel processo di spoliazione della maschera che culminerà
nell’aereo vuoto. Ad esso il film ritorna circolarmente in
conclusione dopo che l’avevamo visto all’inizio. Dopo il
tradimento di sua figlia Raina/Paola Mori (quanta importanza ha il
tradimento nel cinema di Welles!), che segue regolarmente le
istruzioni-trappola di Van Stratten/Robert Arden nel dialogo col
padre per radio, vediamo gli occhi sbarrati di Arkadin - e poi
sentiamo solo il “rumore vuoto” dall’altoparlante.
Anche
Arkadin possiede un castello come Kane in Quarto
potere, ma quello di
Kane era un’ombra gotica, quello di Arkadin è un castello da fiaba
con le torri bianche a punta, in accordo con l’essenza fiabesca del
suo padrone (sua figlia lo chiama l’Orco).
Kane
lo vedevamo morire all’inizio del film, circondato dai suoi
possedimenti; Arkadin semplicemente non lo vediamo più. Quel misero
aereo noleggiato, visto dall’alto mentre Van Stratten è in auto
con Raina, è il contrario di una scena precedente in cui un altro
aereo di Arkadin passava sotto le loro teste, come a ricordare che
erano entrambi sotto il dominio dell’Orco.
“Perché
portate quell’orribile barba?” - “Per spaventare la gente”.
La fine di Arkadin è la fine di una fiaba nera, di una specie di
Babbo Natale demoniaco (il suo ultimo omicidio, in Germania, si
annuncia mentre da fuori salgono le note di canzoni natalizie:
Tannenbaum
e Stille Nacht).
Una
fiaba nera colma di ambiguità sessuale, con Arkadin che sottopone
Raina a una sorveglianza tanto pervasiva quanto irreale e fantastica,
attraverso la schiera occhiuta dei suoi “segretari” (ove Welles
si concede deliziosi tocchi di humour nero); che quando si toglie la
famosa mascherina bianca lo fa in camera da letto della figlia, di
cui parla come un innamorato, ed è per scacciare un possibile
concorrente. Per quanto sia stupido, Van Stratten ha capito bene
quando osserva a Raina: “Ti fa sorvegliare come un marito geloso”.
(Citizen
Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)
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