lunedì 29 settembre 2014

Anime nere

Francesco Munzi
In un passaggio di Anime nere vediamo Luciano (che vive allevando capre in un paese diroccato dell'Aspromonte) raccogliere in chiesa un po' di “polvere del Santo”, il pietrisco attorno alla statua, per ingerirla coll'acqua come cura. Questo rito arcaico lo avevamo già visto nel lungometraggio lirico/documentario Le quattro volte di Michelangelo Frammartino – al quale molte cose dello splendido film di Francesco Munzi ci riportano, non solo l'ambiente calabrese, l'Aspromonte, o magari i musi vagamente inquietanti delle capre.
Quello che i due film hanno in comune è una sensazione sconvolgente di verità. Anime nere, la cupa vicenda dei fratelli Carbone, è un film di fiction, ma sotto il plot si estende un tessuto che si può definire antropologico. Non nel semplice senso di un'attenzione inserita nel narrato (come in Scorsese per esempio), bensì di un fondo vasto, prepotente, inglobante, che quasi arriva a soverchiare la trama. Vedi per esempio le scene del lutto: se l'incidente che le origina viene dallo sviluppo drammatico, esse vanno oltre per imbeversi di un senso documentario (e Munzi negli anni novanta è stato anche documentarista). Il film mescola a eccellenti attori professionisti molta gente del luogo e usa il dialetto calabrese, sottotitolato, che aggiunge verità a verità. Fin dall'ambientazione: non dimenticheremo il paese diroccato sulla montagna (è Africo Vecchio, abbandonato dagli abitanti dopo una frana), con l'inquadratura dall'alto che mostra le case scoperchiate.
I tre fratelli Carbone sono Luciano, Rocco e Luigi: criminalità calabrese che si regge in un fragile equilibrio fra cautela e rancore verso la famiglia in ascesa dei Barreca, che hanno ucciso il patriarca Carbone anni prima. In disparte stanno gli ambigui Carruba, alleati dei Carbone ma infidi. “Pi iddi finiu”, sono finiti, dice il capoclan, e decide di non schierarsi al loro fianco.
Dalla drammaturgia classica del film di mafia (o di 'ndrangheta), lo svolgimento si allarga – e raggiunge un'alta potenza tragica – al quadro di una Calabria congelata nel tempo, all'immutabile resistenza dell'arcaico in questo mondo chiuso. Nel quale la legge dello Stato è l'altro assoluto: nemmeno nemico, perché dire nemico è già un riconoscimento di parte in gioco; piuttosto, qualcosa di ostilmente alieno. La vecchia madre piangente sputa contro i carabinieri che indagano sull'assassinio di suo figlio.
La stessa transizione da una criminalità di origine contadina ad una criminalità metropolitana e internazionale – dall'abigeato al traffico di droga – è nel film complessa e contraddittoria. In questo senso il punto focale del film è Luigi (Marco Leonardi), nel quale si congiungono mondi ed epoche. Infatti lo vediamo all'inizio trattare da pari a pari sullo yacht di un trafficante di droga ad Amsterdam; ma al ritorno in Lombardia ruba una pecora da macellare e mangiare: questo non è “lavoro” criminale, è la rivendicazione istintiva di una continuità col passato (il “moderno” Rocco, in auto, brontola: “Ma ancora fate 'ste stronzate?”). A questa scena si collega, quando Luigi torna in paese in Calabria, quella del pranzo collettivo a base di carne di capretto, che Luigi sceglie nel gregge e sgozza personalmente: c'è come l'idea di un contatto diretto, materiale, predatorio coll'animale-cibo.
Invece l'imprenditore Rocco (Peppino Mazzotta) è tutto proiettato nel mondo d'oggi: una criminalità (chiaramente ricicla i soldi della droga) in giacca e cravatta. Vive a Milano, ha sposato una settentrionale (Barbora Bobulova), che quando vengono a cena i parenti chiede ironicamente “A che ora arrivano i pregiudicati?” Il film usa questo personaggio per rappresentare fisicamente la distanza antropologica. Quando la tragedia comincia a dipanarsi e lei raggiunge il marito in Calabria, è molto bella la sua soggettiva sulle due donne che pregano: una soggettiva silenziosa con la quale Munzi riesce a far sentire fortemente una distanza invalicabile.
Invece Luciano (Fabrizio Ferracane), il maggiore, chiuso e introverso, è rimasto al paese; mantenendo coi fratelli il legame familiare ma non quello criminale, si macera nel tentativo di rimuginare il dolore per il padre ucciso ma vivere un'esistenza “pura”, contadina, di allevatore. Va notato che le capre in relazione a Luciano sono connesse a immagini di vita (il gregge, la cura della bestia malata), in relazione a Luigi a immagini di violenza e morte (lo sgozzamento, il tiro a segno coi teschi come bersaglio).
E poi c'è il figlio Leo (Giuseppe Fumo), un ragazzotto violento che per un litigio è pronto a sparare contro la vetrata di un bar, e che si sente figlio più dello zio Luigi che di Luciano; lo zio apprezza la sua aggressività (che sarà motore di un tragico sviluppo) vedendovi la somiglianza con sé rispetto al fratello, di cui materialmente non capisce l'estraniamento alle logica del clan.
In questi personaggi ben delineati (occhi come palline di vetro nero!) il film mette potentemente in gioco il tema del destino e della caduta. Sono, i tre fratelli, personaggi tragici, ciascuno determinato senza saperlo dalle proprie contraddizioni, in un gioco psicologico affascinante. La tragedia viene innestata dalle bravate di Leo, ma in realtà è intrinseca alla vita stessa dei tre – e di tutto il mondo che li circonda. Non ci si libera del passato; non c'è una divisione in buoni e cattivi perché tutti sono anime nere. Anche chi non vuol esserlo è costretto a fare il male nello sconvolgente epilogo.
Anime nere brilla per coerenza e sicurezza di costruzione, padronanza dei mezzi linguistici, originalità espressiva. Per esempio, è senz'altro bella la scena di tesa suspense, di notte, nei corridoi della scuola abbandonata, ma quel che è veramente splendido è il mattino dopo: Francesco Munzi mantiene il cadavere a terra fuori fuoco, per concentrare tutta l'emozione su chi è accorso; l'enunciazione visiva del corpo avviene solo un momento dopo, quando scoppia la manifestazione del dolore. In un film ricco di silenzi, il discorso sa esplicarsi sul puro piano dell'immagine: come nel pre-finale, quando le capre uscite dal recinto che invadono l'aia, e guardano dentro casa dalla porta aperta chiedendosi se entrare o no, rappresentano con notevole forza visuale la fine del sogno di “chiamarsi fuori” di Luciano.

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