Francesco Munzi
In
un passaggio di Anime
nere
vediamo Luciano (che vive allevando capre in un paese diroccato
dell'Aspromonte) raccogliere in chiesa un po' di “polvere del
Santo”, il pietrisco attorno alla statua, per ingerirla coll'acqua
come cura. Questo rito arcaico lo avevamo già visto nel
lungometraggio lirico/documentario Le
quattro volte
di Michelangelo Frammartino – al quale molte cose dello splendido
film di Francesco Munzi ci riportano, non solo l'ambiente calabrese,
l'Aspromonte, o magari i musi vagamente inquietanti delle capre.
Quello
che i due film hanno in comune è una sensazione sconvolgente di
verità. Anime
nere,
la cupa vicenda dei fratelli Carbone, è un film di fiction, ma sotto
il plot si estende un tessuto che si può definire antropologico. Non
nel semplice senso di un'attenzione inserita nel narrato (come in
Scorsese per esempio), bensì di un fondo
vasto, prepotente, inglobante, che quasi arriva a soverchiare la
trama. Vedi per esempio le scene del lutto: se l'incidente che le
origina viene dallo sviluppo drammatico, esse vanno oltre per
imbeversi di un senso documentario (e Munzi negli anni novanta è
stato anche documentarista). Il film mescola a eccellenti attori
professionisti molta gente del luogo e usa il dialetto calabrese,
sottotitolato, che aggiunge verità a verità. Fin
dall'ambientazione: non dimenticheremo il paese diroccato sulla
montagna (è Africo Vecchio, abbandonato dagli abitanti dopo una
frana), con l'inquadratura dall'alto che mostra le case scoperchiate.
I
tre fratelli Carbone sono Luciano, Rocco e Luigi: criminalità
calabrese che si regge in un fragile equilibrio fra cautela e rancore
verso la famiglia in ascesa dei Barreca, che hanno ucciso il
patriarca Carbone anni prima. In disparte stanno gli ambigui Carruba,
alleati dei Carbone ma infidi. “Pi iddi finiu”, sono finiti, dice
il capoclan, e decide di non schierarsi al loro fianco.
Dalla
drammaturgia classica del film di mafia (o di 'ndrangheta), lo
svolgimento si allarga – e raggiunge un'alta potenza tragica – al
quadro di una Calabria congelata nel tempo, all'immutabile resistenza
dell'arcaico in questo mondo chiuso.
Nel quale la legge dello Stato è l'altro
assoluto:
nemmeno nemico, perché dire nemico è
già un riconoscimento di parte in gioco; piuttosto, qualcosa di
ostilmente alieno. La vecchia madre piangente sputa contro i
carabinieri che indagano sull'assassinio di suo figlio.
La
stessa transizione da una criminalità di origine contadina ad una
criminalità metropolitana e internazionale – dall'abigeato al
traffico di droga – è nel film complessa e contraddittoria. In
questo senso il punto focale del film è Luigi (Marco Leonardi), nel
quale si congiungono mondi ed epoche. Infatti lo vediamo all'inizio
trattare da pari a pari sullo yacht di un trafficante di droga ad
Amsterdam; ma al ritorno in Lombardia ruba una pecora da macellare e
mangiare: questo non è “lavoro” criminale, è la rivendicazione
istintiva di una continuità col passato (il “moderno” Rocco, in
auto, brontola: “Ma ancora fate 'ste stronzate?”). A questa scena
si collega, quando Luigi torna in paese in Calabria, quella del
pranzo collettivo a base di carne di capretto, che Luigi sceglie nel
gregge e sgozza personalmente: c'è come l'idea di un contatto
diretto, materiale, predatorio coll'animale-cibo.
Invece
l'imprenditore Rocco (Peppino Mazzotta) è tutto proiettato nel mondo
d'oggi: una criminalità (chiaramente ricicla i soldi della droga)
in giacca e cravatta. Vive a Milano, ha sposato una settentrionale
(Barbora Bobulova), che quando vengono a cena i parenti chiede
ironicamente “A che ora arrivano i pregiudicati?” Il film usa
questo personaggio per rappresentare fisicamente la distanza
antropologica. Quando la tragedia comincia a dipanarsi e lei
raggiunge il marito in Calabria, è molto bella la sua soggettiva
sulle due donne che pregano: una soggettiva silenziosa con la quale
Munzi riesce a far sentire fortemente una distanza invalicabile.
Invece
Luciano (Fabrizio Ferracane), il maggiore, chiuso e introverso, è
rimasto al paese; mantenendo coi fratelli il legame familiare ma non
quello criminale, si macera nel tentativo di rimuginare il dolore per
il padre ucciso ma vivere un'esistenza “pura”, contadina, di
allevatore. Va notato che le capre in relazione a Luciano sono
connesse a immagini di vita (il gregge, la cura della bestia malata),
in relazione a Luigi a immagini di violenza e morte (lo sgozzamento,
il tiro a segno coi teschi come bersaglio).
E
poi c'è il figlio Leo (Giuseppe Fumo), un ragazzotto violento che
per un litigio è pronto a sparare contro la vetrata di un bar, e che
si sente figlio più dello zio Luigi che di Luciano; lo zio apprezza
la sua aggressività (che sarà motore di un tragico sviluppo)
vedendovi la somiglianza con sé rispetto al fratello, di cui
materialmente non capisce l'estraniamento alle logica del clan.
In
questi personaggi ben delineati (occhi come palline di vetro nero!)
il film mette potentemente in gioco il tema del destino e della
caduta. Sono, i tre fratelli, personaggi tragici, ciascuno
determinato senza saperlo dalle proprie contraddizioni, in un gioco
psicologico affascinante. La tragedia viene innestata dalle bravate
di Leo, ma in realtà è intrinseca alla vita stessa dei tre – e di
tutto il mondo che li circonda. Non ci si libera del passato; non c'è
una divisione in buoni e cattivi perché tutti sono anime nere. Anche
chi non vuol esserlo è costretto a fare il male nello sconvolgente
epilogo.
Anime
nere
brilla per coerenza e sicurezza di costruzione, padronanza dei mezzi
linguistici, originalità espressiva. Per esempio, è senz'altro
bella la scena di tesa suspense, di notte, nei corridoi della scuola
abbandonata, ma quel che è veramente splendido è il mattino dopo:
Francesco Munzi mantiene il cadavere a terra fuori fuoco, per
concentrare tutta l'emozione su chi è accorso; l'enunciazione visiva
del corpo avviene solo un momento dopo, quando scoppia la
manifestazione del dolore. In un film ricco di silenzi, il discorso
sa esplicarsi sul puro piano dell'immagine: come nel pre-finale,
quando le capre uscite dal recinto che invadono l'aia, e guardano
dentro casa dalla porta aperta chiedendosi se entrare o no,
rappresentano con notevole forza visuale la fine del sogno di
“chiamarsi fuori” di Luciano.
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