lunedì 29 settembre 2014

Pasolini

Abel Ferrara
O mi suicido o filmo”. Di questa necessità assoluta, fisica e morale, di fare film parla Pier Paolo Pasolini nell'intervista, basata su testi autentici, che rilascia a un giornalista (era Furio Colombo) in Pasolini di Abel Ferrara. Ma parla anche Abel Ferrara: è una dichiarazione che vale in modo egualmente perentorio per tutto il suo cinema. Ah, ma tutto questo film sconvolgente si fonda su un doppio movimento, su una sovrapposizione.
Da un lato c'è una mimesis, un impegno di riproduzione perfetta di P.P.P. Non intendo solo l'abbagliante sforzo mimetico di Willem Dafoe, che crea un vero sosia non solo fisico; il film riproduce a tocchi sicuri tutto il suo mondo, le persone, la Laura Betti di Maria de Medeiros, il Nico Naldini di Valerio Mastandrea, la madre interpretata da Adriana Asti, il gossip sull'ultimo film di JancsóVizi privati, piccole virtù), un name dropping che si spinge all'acribia di menzionare Gaetano Perusini. Dall'altro, questa sorta di sovrimpressione per cui Ferrara parla anche di se stesso, nel senso della sua necessità quasi sacrificale di fare un cinema di idee e interrogativi morali (occorre ricordare che Ferrara riflette sul proprio lavoro di regista in tutta la sua opera?). E' proprio questa dialettica Pasolini/Ferrara che spinge Ferrara a “filmare la mente di Pasolini”, offrendoci (visualizzando) nel suo film non solo scene del romanzo Petrolio ma la sceneggiatura inedita Porno-Teo-Kolossal: a girare il film di Pasolini che Pasolini non ha girato. In quest'ultimo compito è geniale la trovata di usare Ninetto Davoli nel ruolo che Pasolini voleva offrire a Eduardo De Filippo (mentre, in un gioco di specchi, accanto a lui Riccardo Scamarcio fa Ninetto Davoli). Come stile Ferrara si ispira a Dove sono le nuvole e La Terra vista dalla Luna - mentre la scena dell'orgia nella città di Sodoma sembra incrociare Pasolini con Ferrara stesso.
Pasolini comincia con P.P.P. intervistato mentre è intento al montaggio di Salò – un'apertura che esprime l'interesse compulsivo di Ferrara sia per il tema del male e della scelta sia per quello del cinema e della riproduzione. Anche la diversità di statuto delle immagini, per cui nel film vediamo scene prima raccontate poi visualizzate, non stupisce, conoscendo quella continua riflessione sull'essenza della riproduzione che caratterizza il cinema di Ferrara a partire almeno da Occhi di serpente ed esplode nella seconda parte della sua produzione.
I personaggi di Ferrara sono fondamentalmente soli (Il cattivo tenente). In Pasolini P.P.P. è, certo, inserito in una tessitura di affetti; nondimeno c'è un che di solitudine in lui (lo sguardo divertito con cui vede danzare Laura Betti è un affettuoso sguardo da fuori); P.P.P. solo anche quando sta con altri, e forse non si vede mai tanto bene come nella scema al ristorante con Ninetto Davoli (Scamarcio) e famiglia.
Nell'intervista, già citata, a Pasolini nel film, P.P.P. propone come titolo “Siamo tutti in pericolo”. Quando sfoglia il giornale spiccano notizie di uccisioni politiche (anche per equivoco), di vittime, fra cui il volto devastato della superstite del massacro del Circeo (riferimento, questo, non solo al male diffuso ma anche richiamo a Salò che con le sue immagini apriva il film).
Il cinema di Ferrara un cinema martirologico. E' fondato su personaggi autodistruttivi che si tuffano nel patimento e nell'umiliazione, in una spirale di colpa e redenzione. Nei suoi giri in auto nella notte romana in cerca di prostituti, in soggettive rese drammatiche dalla fotografia “sporca” , quasi sgranata di Stefano Falivene, Pasolini cerca il sesso - ma soprattutto corteggia la morte. Ferrara lo mostra bene nei primissimi piani dei “ragazzi di vita” assiepati davanti ai bar, dove l'inquadratura ravvicinata si carica di minaccia; e basta vedere la scena in cui dopo il pompino il prostituto picchia Pasolini in faccia. E' interessante lo stacco da questa scena all'immagine (ritornante nel film) dei nudi scultorei dell'EUR: la sensualità del corpo, certo, ma rifratta attraverso il filtro imitativo del modernismo fascista; ed è come il richiamo, molto pasoliniano invero, a una sessualità originaria perduta. All'immagine della statua segue quella dell'architettura dell'EUR, astratta e bianca, inumana nella sua fredda bellezza. Lo splendido montaggio del film è di Massimo Gaudioso, che esprime nel gioco dei dettagli il dramma e il desiderio, come nella scena della cena di Pasolini con Pino Pelosi (il suo futuro assassino).
Circa la sequenza dell'assassinio a Ostia, va citata una soluzione magistrale nella score. Sull'immagine della gente che osserva - senza sconvolgersi – il cadavere all'alba del mattino dopo, e di lì sul dolore di amici e parenti (indimenticabile il viso di mater dolorosa di Adriana Asti), e sul soffermarsi della mdp sopra gli oggetti di Pasolini (le foto, la Olivetti Lettera 22, l'agenda aperta, ultima immagine del film), su tutto questo sentiamo la voce di Maria Callas (che poi è la Medea pasoliniana) in “Una voce poco fa”; con scelta folle e geniale Ferrara manda il solo inizio dell'aria in una sorta di loop, che nel suo ripetersi continuamente in rapporto con le immagini ruba a Rossini il suo carattere solare, lo piega a una devastante drammaticità. Solo sul nero dei titoli di coda l'aria prosegue distesa, e tuttavia contaminata dal dramma che abbiamo visto.
Quel grumo di dolore, colpa, oscura redenzione nel patimento, accomuna il regista friulano-romano e quello newyorkese (come gridano i suoi capolavori, Il cattivo tenente, Fratelli, The Addiction) in questo film potente. Non è piaciuto alla critica italiana? Tanto peggio per la critica italiana.

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