Abel Ferrara
“O
mi suicido o filmo”. Di questa necessità assoluta, fisica e
morale, di fare film parla Pier Paolo Pasolini nell'intervista,
basata su testi autentici, che rilascia a un giornalista (era Furio
Colombo) in Pasolini
di Abel Ferrara. Ma parla anche Abel Ferrara: è una dichiarazione
che vale in modo egualmente perentorio per tutto il suo cinema. Ah,
ma tutto questo film sconvolgente si fonda su un doppio movimento, su
una sovrapposizione.
Da
un lato c'è una mimesis,
un
impegno di riproduzione perfetta di P.P.P. Non
intendo solo l'abbagliante sforzo mimetico di Willem Dafoe, che crea
un vero sosia non solo fisico; il film riproduce a tocchi sicuri
tutto il suo mondo, le persone, la Laura Betti di Maria de Medeiros,
il Nico Naldini di Valerio Mastandrea, la madre interpretata da
Adriana Asti, il gossip sull'ultimo film di Jancsó
(è Vizi
privati, piccole virtù),
un name
dropping che
si spinge all'acribia di
menzionare Gaetano Perusini. Dall'altro, questa sorta di
sovrimpressione per cui Ferrara parla anche di se stesso, nel senso
della sua necessità quasi sacrificale di fare un cinema di idee e
interrogativi morali (occorre ricordare che Ferrara riflette sul
proprio lavoro di regista in tutta la sua opera?). E' proprio questa
dialettica Pasolini/Ferrara che spinge Ferrara a “filmare la mente
di Pasolini”, offrendoci (visualizzando) nel suo film non solo
scene del romanzo Petrolio
ma la sceneggiatura inedita Porno-Teo-Kolossal:
a girare il film di Pasolini che Pasolini non ha girato. In
quest'ultimo compito è geniale la trovata di usare Ninetto Davoli
nel ruolo che Pasolini voleva offrire a Eduardo De Filippo (mentre,
in un gioco di specchi, accanto a lui Riccardo Scamarcio fa Ninetto
Davoli). Come stile Ferrara si ispira a Dove
sono le nuvole e La Terra vista dalla Luna - mentre
la scena dell'orgia nella città di Sodoma sembra incrociare Pasolini
con Ferrara stesso.
Pasolini
comincia con P.P.P. intervistato mentre è intento al montaggio di
Salò
– un'apertura che esprime l'interesse compulsivo di Ferrara sia per
il tema del male e della scelta sia per quello del cinema e della
riproduzione. Anche la diversità di statuto delle immagini, per cui
nel film vediamo scene prima raccontate poi visualizzate, non
stupisce, conoscendo quella continua riflessione sull'essenza della
riproduzione che caratterizza il cinema di Ferrara a partire almeno
da Occhi
di serpente
ed esplode nella seconda parte della sua produzione.
I
personaggi di Ferrara sono fondamentalmente soli (Il
cattivo tenente).
In Pasolini
P.P.P.
è, certo, inserito in una tessitura di affetti; nondimeno c'è un
che di solitudine in lui (lo sguardo divertito con cui vede danzare
Laura Betti è un affettuoso sguardo da
fuori);
P.P.P. solo anche quando sta con altri, e forse non si vede mai tanto
bene come nella scema al ristorante con Ninetto Davoli (Scamarcio) e
famiglia.
Nell'intervista,
già citata, a Pasolini nel film, P.P.P. propone come titolo “Siamo
tutti in pericolo”. Quando sfoglia il giornale spiccano notizie di
uccisioni politiche (anche per equivoco), di vittime, fra cui il
volto devastato della superstite del massacro del Circeo
(riferimento, questo, non solo al male diffuso ma anche richiamo a
Salò
che con le sue immagini apriva il film).
Il
cinema di Ferrara un cinema martirologico.
E' fondato su personaggi autodistruttivi che si tuffano nel patimento
e nell'umiliazione, in una spirale di colpa e redenzione. Nei
suoi giri in auto nella notte romana in cerca di prostituti, in
soggettive rese drammatiche dalla fotografia “sporca” , quasi
sgranata di Stefano Falivene, Pasolini cerca il sesso - ma
soprattutto corteggia la morte. Ferrara lo mostra bene nei
primissimi piani dei “ragazzi di vita” assiepati davanti ai bar,
dove l'inquadratura ravvicinata si carica di minaccia; e basta vedere
la scena in cui dopo il pompino il prostituto picchia Pasolini in
faccia. E' interessante lo stacco da questa scena all'immagine
(ritornante nel film) dei nudi scultorei dell'EUR: la sensualità del
corpo, certo, ma rifratta
attraverso il filtro imitativo del modernismo fascista; ed è come il
richiamo, molto pasoliniano invero, a una sessualità originaria
perduta. All'immagine della statua segue quella dell'architettura
dell'EUR, astratta e bianca, inumana nella sua fredda bellezza. Lo
splendido montaggio del film è di Massimo Gaudioso, che esprime nel
gioco dei dettagli il dramma e il desiderio, come nella scena della
cena di Pasolini con Pino Pelosi (il suo futuro assassino).
Circa
la sequenza dell'assassinio a Ostia, va citata una soluzione
magistrale nella score.
Sull'immagine della gente che osserva - senza sconvolgersi – il
cadavere all'alba del mattino dopo, e di lì sul dolore di amici e
parenti (indimenticabile il viso di mater
dolorosa
di Adriana Asti), e sul soffermarsi della mdp sopra gli oggetti di
Pasolini (le foto, la Olivetti Lettera 22, l'agenda aperta, ultima
immagine del film), su tutto questo sentiamo la voce di Maria Callas
(che poi è la Medea pasoliniana) in “Una voce poco fa”; con
scelta folle e geniale Ferrara manda il solo inizio dell'aria in una
sorta di loop,
che nel suo ripetersi continuamente in rapporto con le immagini ruba
a Rossini il suo carattere solare, lo piega a una devastante
drammaticità. Solo sul nero dei titoli di coda l'aria prosegue
distesa, e tuttavia contaminata
dal dramma che abbiamo visto.
Quel
grumo di dolore, colpa, oscura redenzione nel patimento, accomuna il
regista friulano-romano e quello newyorkese (come gridano i suoi
capolavori, Il
cattivo tenente,
Fratelli,
The
Addiction)
in questo film potente. Non è piaciuto alla critica italiana? Tanto
peggio per la critica italiana.
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