giovedì 23 ottobre 2014

Bergman e il desiderio


C’è uno slancio vitale, una pulsione, un’urgenza, in tutto il cinema di Bergman: in potenza o in atto, compiuto o sognato, agognato o respinto, accettato o dimenticato. Desiderio morale o materiale. Desiderio d’amore. Ricerca della fede (un percorso, in Bergman, notevolmente simile al desiderio dell’amore). Desiderio di possedere. Desiderio dei corpi.
Voglio questa estate”, sentiamo in Monica e il desiderio (titolo originale, “L’estate con Monika”), film dell’immediatezza dell’esperienza, che non stupisce facesse impazzire in Francia l’angelica gang della Nouvelle Vague. L’estate nordica è il momento dell’esplosione del sentimento e dei sensi, mentre la macchina da presa di Bergman distende lo sguardo fra sole, alberi, rocce, acqua. (Ma può anche essere demoniaca: come il “caldo giorno d’estate” nel prologo da incubo di Una vampata d’amore, con Gudrun Brost che si spoglia davanti ai militari, in uno scenario pieno di cannoni come evidenti simboli fallici, grottesca sequenza attraversata da un senso di violenza e prostituzione). La felicità degli amori è effimera perché è effimera l’estate che li contiene. La breve stagione si fonde con l’esperienza esistenziale: tempo dell’amore e tempo della giovinezza; come mostra bene, fra tanti, Sorrisi di una notte d’estate, Bergman ama l’analogia fra la vita umana e le stagioni.
I personaggi di Bergman incrociano questa febbre dell’amore e del desiderio. Talvolta riescono a raggiungerla. Spesso è assaporata e perduta, come accade in modo tragico a Maj-Britt Nilsson in Un’estate d’amore, in modo non tragico ma pur sempre doloroso a Lars Ekborg in Monica e il desiderio (che vibra della carnalità elettrica di Harriet Andersson, ma è focalizzato sul suo impacciato amante). Spesso i protagonisti bergmaniani vedono il desiderio passar loro accanto; incrociato ma non vissuto, li sfiora come una meteora, un fenomeno che soltanto scatena quella discesa dentro se stessi che è il vero argomento. Perché Bergman è un regista implosivo: il suo materiale non sono i fatti, ma l’anima - che non è un concetto astratto o metafisico, non fosse altro perché, in Bergman, si legge sul volto.
A differenza di tutti i registi romantici, per Bergman l’amore è riservato a pochi, predestinati alla sofferenza (dice Satana alla fine de L’occhio del diavolo: “Niente è abbastanza crudele per colui che ama”). Per gli altri, resta a portata l’illusione dell’amore; e questa, benché non sia gratis, costa pure di meno. Se escludiamo il matrimonio, naturalmente, che Bergman ha una interessante propensione a equiparare all’inferno. Dimostrazioni per via diegetica e belle definizioni epigrammatiche ricorrono in tutta la sua filmografia (benché esista un certo spazio per la riconciliazione: Alle soglie della vita, L’occhio del diavolo, Lezione d’amore).
Resta l’onnipresenza del desiderio, forte, prepotente, celato in ogni film. Persino un film gelido e insieme bollente sul “doppio” e sul vampirismo psichico - in una scena, anche fisico - quale Persona; qui il tema secondario sotteso è semmai quello della maternità (che per Bergman è sempre stata una cosa troppo importante per lasciarla al desiderio); eppure anche qui esplode all’improvviso la potenza dei sensi, evocata da Bibi Andersson nel suo angosciato racconto a Liv Ullmann di un’antica avventura orgiastica sulla spiaggia (racconto non visualizzato, ma egualmente così intenso che all’epoca fu largamente censurato nell’edizione italiana del film).
A Bergman - che non è un bigotto - non importa tanto l’atto in sé quanto il modo in cui è vissuto. Esiste un desiderio freddo, che a Bergman ripugna. Vuoi la sessualità occasionale e meccanica in Persona o Il silenzio, vuoi l’educata golosità di un piatto di pesce nei gelidi rituali altoborghesi di Sussurri e grida, vuoi l’opportunismo sessuale vacuo (una vescica vacua essendo il personaggio) del borioso Cornelius, Jarl Kulle, in A proposito di tutte queste... signore. Tant’è che ne L’occhio del diavolo Bergman si prende il gusto di castigare l’archetipo occidentale stesso della sessualità enumerativa (“Madamina, il catalogo è questo...”): Don Giovanni in persona, che parte per sedurre, nutrito di attenti studi sull’antropologia erotica della donna nordica, e ritorna innamorato infelice. Lo interpreta sempre Jarl Kulle - campione di sessualità egoistica pure in Sorrisi di una notte d’estate, è il suo ruolo principe.
Per il maestro svedese il desiderio freddo è detestabile in quanto esempio della frigidità d’animo: il peccato originale secondo Bergman. “Non hai mai avuto altri amori che te stesso” è il rimprovero che sentiamo in Sorrisi di una notte d’estate. L’indifferenza, l’egoismo che si traduce in primo luogo in incapacità comunicativa, è l’inverno dell’anima, e la soffoca. E’ il concetto base di sterilità, che Bergman declina in tutta la sua ampiezza, dal realismo al simbolico (anche la vagina insanguinata di Sussurri e grida rimanda alla sterilità) al metafisico.
Mentre invece abbiamo un obbligo di vivere (ogni giorno devi celebrare la tua messa: Luci d’inverno). Tanto cinema bergmaniano presenta, rispetto al vuoto dell’anima, percorsi di guarigione; non occorre citare solo l’archetipico Il posto delle fragole. L’incerto superamento del vuoto del dolore in Un’estate d’amore, l’ironico “ritrovamento del senso” in Sorrisi di una notte d’estate - tutto incerto, tutto ironico e provvisorio, s’intende, pronto a rompersi di nuovo: come ci aspettiamo da un maestro del rovesciamento e della contraddizione.
Un obbligo di vivere, un obbligo di comunicare con gli altri, il cui senso profondo - qui sì che il desiderio si esprime come forza vivificatrice - è la capacità di gustare l’immediato, vivere gioiosamente l’oggi (pur sempre sottoposti ai rovesciamenti del destino e all’impietoso passare del tempo), amare le piccole cose e la semplicità della vita. Ne sono simbolo le fragole selvatiche, presenti nel cinema bergmaniano - tutto intessuto di motivi ricorrenti - ben oltre il film eponimo, Il posto delle fragole. Il miracolo “mozartiano” di una leggerezza che non sia vacuità.
La didascalia finale del copione di Sorrisi di una notte d’estate, nella scena conclusiva con Harriet Andersson e Ake Fridell, dice: “Si è tolta le scarpe e le calze e cammina a piedi nudi sull’erba umida di rugiada, alzandosi la sottana al di sopra delle ginocchia. Frid cammina dietro di lei, e la vista delle sue cosce tornite è così maledettamente bella che si mette a cantare”.

(già pubblicato in
Ingmar Bergman. Di silenzi e desideri, a cura di Riccardo Costantini,
Udine-Pordenone2004)

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