C’è
uno slancio vitale, una pulsione, un’urgenza, in tutto il cinema di
Bergman: in potenza o in atto, compiuto o sognato, agognato o
respinto, accettato o dimenticato. Desiderio morale o materiale.
Desiderio d’amore. Ricerca della fede (un percorso, in Bergman,
notevolmente simile al desiderio dell’amore). Desiderio di
possedere. Desiderio dei corpi.
“Voglio
questa estate”, sentiamo in Monica
e il desiderio (titolo
originale, “L’estate con Monika”), film dell’immediatezza
dell’esperienza, che non stupisce facesse impazzire in Francia
l’angelica gang della Nouvelle Vague. L’estate nordica è il
momento dell’esplosione del sentimento e dei sensi, mentre la
macchina da presa di Bergman distende lo sguardo fra sole, alberi,
rocce, acqua. (Ma può anche essere demoniaca: come il “caldo
giorno d’estate” nel prologo da incubo di Una
vampata d’amore, con
Gudrun Brost che si spoglia davanti ai militari, in uno scenario
pieno di cannoni come evidenti simboli fallici, grottesca sequenza
attraversata da un senso di violenza e prostituzione). La felicità
degli amori è effimera perché è effimera l’estate che li
contiene. La breve stagione si fonde con l’esperienza esistenziale:
tempo dell’amore e tempo della giovinezza; come mostra bene, fra
tanti, Sorrisi di una
notte d’estate,
Bergman ama l’analogia
fra la vita umana e le stagioni.
I
personaggi di Bergman incrociano questa febbre dell’amore e del
desiderio. Talvolta riescono a raggiungerla. Spesso è assaporata e
perduta, come accade in modo tragico a Maj-Britt Nilsson in Un’estate
d’amore,
in modo non tragico ma
pur sempre doloroso a Lars Ekborg
in Monica
e il desiderio (che
vibra della carnalità elettrica di Harriet Andersson, ma è
focalizzato sul suo impacciato amante). Spesso i protagonisti
bergmaniani vedono il desiderio passar loro accanto; incrociato ma
non vissuto, li sfiora come una meteora, un fenomeno che soltanto
scatena quella discesa dentro se stessi che è il vero argomento.
Perché Bergman è un regista implosivo:
il suo materiale non sono i fatti, ma l’anima - che non è un
concetto astratto o metafisico, non fosse altro perché, in Bergman,
si legge sul volto.
A
differenza di tutti i registi romantici, per Bergman l’amore è
riservato a pochi, predestinati alla sofferenza (dice Satana alla
fine de L’occhio del
diavolo: “Niente è
abbastanza crudele per colui che ama”). Per gli altri, resta a
portata l’illusione dell’amore; e questa, benché non sia gratis,
costa pure di meno. Se escludiamo il matrimonio, naturalmente, che
Bergman ha una interessante propensione a equiparare all’inferno.
Dimostrazioni per via diegetica e belle definizioni epigrammatiche
ricorrono in tutta la sua filmografia (benché esista un certo spazio
per la riconciliazione: Alle soglie della vita, L’occhio
del diavolo, Lezione
d’amore).
Resta
l’onnipresenza del desiderio, forte, prepotente, celato in ogni
film. Persino un film gelido e insieme bollente sul “doppio” e
sul vampirismo psichico - in una scena, anche fisico - quale Persona;
qui il tema secondario sotteso è semmai quello della maternità (che
per Bergman è sempre stata una cosa troppo importante per lasciarla
al desiderio); eppure anche qui esplode all’improvviso la potenza
dei sensi, evocata da Bibi Andersson nel suo angosciato racconto a
Liv Ullmann di un’antica avventura orgiastica sulla spiaggia
(racconto non visualizzato, ma egualmente così intenso che all’epoca
fu largamente censurato nell’edizione italiana del film).
A
Bergman - che non è un bigotto - non importa tanto l’atto in sé
quanto il modo in cui è vissuto. Esiste un desiderio freddo, che a
Bergman ripugna. Vuoi la sessualità occasionale e meccanica in
Persona
o Il silenzio,
vuoi l’educata golosità di un piatto di pesce nei gelidi rituali
altoborghesi di Sussurri
e grida, vuoi
l’opportunismo sessuale vacuo (una vescica vacua essendo il
personaggio) del borioso Cornelius, Jarl Kulle, in A
proposito di tutte queste... signore.
Tant’è che ne L’occhio
del diavolo Bergman si
prende il gusto di castigare l’archetipo occidentale stesso della
sessualità enumerativa
(“Madamina, il catalogo è questo...”): Don Giovanni in persona,
che parte per sedurre, nutrito di attenti studi sull’antropologia
erotica della donna nordica, e ritorna innamorato infelice. Lo
interpreta sempre Jarl Kulle - campione di sessualità egoistica pure
in Sorrisi di una notte
d’estate, è il suo
ruolo principe.
Per
il maestro svedese il desiderio freddo è detestabile in quanto
esempio della frigidità d’animo: il peccato originale secondo
Bergman. “Non hai mai avuto altri amori che te stesso” è il
rimprovero che sentiamo in Sorrisi
di una notte d’estate.
L’indifferenza, l’egoismo che si traduce in primo luogo in
incapacità comunicativa, è l’inverno dell’anima, e la soffoca.
E’ il concetto base di sterilità,
che Bergman declina in tutta la sua ampiezza, dal realismo al
simbolico (anche la vagina insanguinata di Sussurri
e grida rimanda alla
sterilità) al metafisico.
Mentre
invece abbiamo un obbligo di vivere (ogni giorno devi celebrare la
tua messa: Luci
d’inverno). Tanto
cinema bergmaniano presenta, rispetto al vuoto
dell’anima, percorsi
di guarigione; non occorre citare solo l’archetipico Il
posto delle fragole.
L’incerto superamento del vuoto del dolore in Un’estate
d’amore, l’ironico
“ritrovamento del senso” in Sorrisi
di una notte d’estate
- tutto incerto, tutto ironico e provvisorio, s’intende, pronto a
rompersi di nuovo: come ci aspettiamo da un maestro del rovesciamento
e della contraddizione.
Un
obbligo di vivere, un obbligo di comunicare con gli altri, il cui
senso profondo - qui sì che il desiderio si esprime come forza
vivificatrice - è la capacità di gustare l’immediato, vivere
gioiosamente l’oggi (pur sempre sottoposti ai rovesciamenti del
destino e all’impietoso passare del tempo), amare le piccole cose e
la semplicità della vita. Ne sono simbolo le fragole selvatiche,
presenti nel cinema bergmaniano - tutto intessuto di motivi
ricorrenti - ben oltre il film eponimo, Il
posto delle fragole.
Il miracolo “mozartiano” di una leggerezza che non sia vacuità.
La
didascalia finale del copione di Sorrisi
di una notte d’estate,
nella scena conclusiva con Harriet Andersson e Ake Fridell, dice: “Si
è tolta le scarpe e le calze e cammina a piedi nudi sull’erba
umida di rugiada, alzandosi la sottana al di sopra delle ginocchia.
Frid cammina dietro di lei, e la vista delle sue cosce tornite è
così maledettamente bella che si mette a cantare”.
(già pubblicato in
Ingmar Bergman. Di silenzi e desideri, a cura di Riccardo Costantini,
Ingmar Bergman. Di silenzi e desideri, a cura di Riccardo Costantini,
Udine-Pordenone2004)
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