Più
d'uno sono i peccati del dignitoso ma imperfetto Il giovane
favoloso di Mario Martone – ma uno solo è davvero
imperdonabile. A un certo punto del film compare una visualizzazione
del Dialogo della Natura e di un Islandese delle Operette
morali: qui l'Islandese è Leopardi in persona (soit!) mentre la gigantesca Natura assume i tratti della sua gelida,
anaffettiva madre. Qui si cade in quel tipo di Kitsch biografico che
è proprio delle miniserie tv italiane (non solo, ma specialmente):
ovvero la riduzione di una filosofia e visione del mondo al
nudo fatto personale (in sé innegabile: la marchesa Antici era una
creatura odiosa), elevato a livello universale come metafora e
compendio dell'intero pensiero - ed è un involgarimento. “Le mie
opinioni non hanno niente a che vedere con le mie sofferenze
personali”, grida Leopardi a Napoli, nel film, litigando con due
rompiscatole; questa battuta Martone avrebbe dovuto tenerla più
presente.
Paradossalmente
quest'uso “bio/metaforico” della madre porta il film a trascurare
la caratterizzazione della stessa (assai meglio delineato è il padre
Monaldo). Si trascurano anche elementi utili allo spettatore: i
discorsi di soldi a Firenze e poi a Roma sono meno chiari se non
sappiamo che la madre, e non il padre, era l'amministratrice della
disastrosa economia di casa Leopardi (quel buon uomo di Monaldo era
stato interdetto). Solo il dialogo di lei col padre piangente di
Teresa, ossia Silvia, trasmette davvero un lampo della sua
psicologia.
Ben
servito dal montaggio secco di Jacopo Quadri, Il giovane favoloso
comunque restituisce un'immagine vivace e sentita del poeta,
nell'interpretazione naturalistica ma efficace di Elio Germano. I
dialoghi usano molto l'epistolario leopardiano e la trascrizione
funziona. Il film è stato girato nei luoghi autentici, a partire
dalla ricca biblioteca del conte Monaldo a Recanati, con una buona
messa in scena storica (un anacronismo si nota quando a Roma Leopardi
dà del lei anziché del voi a un servitore). Stridono fortemente due
canzoni in inglese nella colonna sonora (arrivo di Pietro Giordani a
Recanati, Leopardi disperato in riva d'Arno). O che Martone si crede
Sofia Coppola? Ma in Marie Antoinette funzionava perché era
tutt'altro stile; qui è un pugno nell'occhio (nell'orecchio).
Il film presenta più la storia psicologica che quella artistica, ma ciò è quasi inevitabile in un biopic. Nei film biografici su un poeta, c'è sempre un elemento spiacevole nelle tipiche scene del genio che con aria ispirata compone posando gli occhi su ciò di cui parla il verso: è un cortocircuito fra la poesia e il suo oggetto che finisce per divenire un appiattimento sull'oggetto. “Io questo ciel che sì benigno / appare”, e Leopardi guarda il cielo; “Tu dormi, che t'accolse agevol sonno”, e guarda la finestra (di Silvia, poi!) di fronte, dove “rara traluce la notturna lampa”. In questo senso è particolarmente infelice l'“ermo colle”.
Il film presenta più la storia psicologica che quella artistica, ma ciò è quasi inevitabile in un biopic. Nei film biografici su un poeta, c'è sempre un elemento spiacevole nelle tipiche scene del genio che con aria ispirata compone posando gli occhi su ciò di cui parla il verso: è un cortocircuito fra la poesia e il suo oggetto che finisce per divenire un appiattimento sull'oggetto. “Io questo ciel che sì benigno / appare”, e Leopardi guarda il cielo; “Tu dormi, che t'accolse agevol sonno”, e guarda la finestra (di Silvia, poi!) di fronte, dove “rara traluce la notturna lampa”. In questo senso è particolarmente infelice l'“ermo colle”.
Tutto
discutibile è l'episodio di Teresa-Silvia. Vediamo, con Leopardi,
Silvia alla finestra, sentiamo i colpi del telaio (“la faticosa
tela”), almeno per fortuna non il “perpetuo canto”; a parte la
cattiva gestione dell'episodio (la scenata di Leopardi davanti alla
morta), gli sceneggiatori Martone e Ippolita Di Majo non sembrano
cogliere l'essenza della poesia. Il fatto qui che Silvia sia una
bella ragazza alquanto scollata cerca goffamente di trasferire il
senso sul piano del desiderio segreto e della fascinazione; è
la temibile “interpretazione Collezione Harmony” di A Silvia
che si ritrova in qualche antologia scolastica, ed è un peccato
ritrovarla qui; o meglio, è una cattiva scappatoia per non dover cercare di
rendere un pensiero ben più complesso.
Il
film si divide nettamente in parti “geografiche”. E' buona quella
dell'infanzia e giovinezza a Recanati; fra l'altro, è indovinata
l'idea di concentrare visivamente l'ignorante rozzezza del “natio
borgo selvaggio” nell'episodio dell'uccisione di una lucciola. Un
errore è però la violenta ellissi di dieci anni che ci porta da
Recanati a Firenze. Questa ellissi si mangia un pezzo assai
significante della formazione del carattere di Leopardi; per esempio,
nell'evoluzione di Giacomo, molto più importante della tentata fuga,
che qui vediamo, fu il fallimentare primo soggiorno a Roma, ospite
dello zio Carlo Antici.
La
parte fiorentina è meno ispirata, con il rapporto alla
Jules e Jim fra Leopardi, Antonio Ranieri e Fanny Targioni
Tozzetti. Appare più didattico il name dropping tipico dei
biopic, a libello verbale (“Manzoni... un così car'uomo”)
e visuale, con Niccolò Tommaseo che ringhia che nel Novecento, come
fama, di Leopardi non resterà neanche la gobba (medice, cura te
ipsum, verrebbe da rimbeccarlo). Un grosso merito del film,
peraltro, è proprio di mostrare la doppia chiusura contro cui si
logorò l'infelice vita del poeta, contro i preti da un lato e i
liberali dall'altro.
Invece
quando Martone segue Leopardi e Ranieri nella sua Napoli il film
diventa carnale e convincente. Non dico nell'impacciata scena del
bordello, dove Martone si mette a rifare Fellini (puttane grasse più
catacombe caliginose: il mix è inconfondibile). Anche l'introduzione
di un ragazzotto non serve a molto più che a buttar dentro nel film
i Paralipomeni della Batracomiomachia. Però questi sono
dettagli secondari, mentre il film, col suo protagonista, precipita
con decisione verso un finale alto e convincente: che culmina con la
macchina da presa (non l'attore) in salita solenne al Vesuvio, sui
versi in voce over de La ginestra. Qui
sì abbiamo immagini dell'oggetto (lo “sterminator Vesevo”, le
ginestre sui pendii, la Terra piccolo globo nello spazio) svincolate
dalla spiacevole mimesi della composizione – e questo è dieci
volte più autentico, e struggente, delle riprese di Leopardi che
recita; onde si esce dal cinema realmente commossi.
1 commento:
Secondo me Lei, almeno in questo caso, a mio avviso appare un somaro. Quasi tutto di ciò che ha scritto è l'esatto contrario di ciò che Martone ha voluto interpretare in Leopardi, ho 72 anni di insegnanti ne ho avuti molti nessuno mi convinceva…. per me Leopardi era altro e Martone mi ha consolato.
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