Sta
il concetto di magia nei suoi più vari significati alla base
dell'ultimo film di Woody Allen, Magic in the Moonlight. Il
primo è la magia come prestidigitazione, illusione ottica, trucco (è
il mestiere del protagonista Colin Firth, illusionista di gran
successo sui palcoscenici europei travestito da cinese). Secondo, e
contrario, la magia come arcana realtà, che sostanzia l'ipotesi di
un mondo differente in cui la telepatia e le premonizioni funzionano,
e i morti rispondono all'appello nelle sedute spiritiche (la
rappresenta la giovane Emma Stone, medium e sensitiva dalle capacità
inspiegabili razionalmente). Terzo, la magia dell'amore: che è
(attesta Allen in questo film e non solo) l'unica magia esistente nel
triste mondo che si conosce “all'apparir del vero”. E quarto,
naturalmente, la magia del cinema, questo dispositivo capace di
materializzare i fantasmi e il passato (siamo nel 1928), il fascino
di una sera d'estate in Riviera, conversazioni beneducate in cui ci
si dicono cose cattive senza alzare la voce, abiti bellissimi di
quando la gente sapeva vestirsi, un mondo - un po' alla Fitzgerald -
di eleganza e ricchezza che oggi ci appare più perduto degli elfi di
Tolkien. Del testo, parlando di
tempo che svanisce, siamo nel 1928: i roaring
(o comunque, sparkling)
Twenties sono arrivati
alla fine; e la scena nel cabaret berlinese già anticipa le
atmosfere corrusche e isteriche di Bob Fosse.
E' facile capire che un
filo forte lega la prima e l'ultima di queste magie: l'illusionismo e
il cinema. Ma allora il grande illusionista è Woody Allen stesso –
e il dilemma che si dibatte nel cuore del protagonista è lo stesso
che da sempre si agita nel cuore e nel cervello di Woody Allen come
persona e come autore... modificandosi solo perché si è precisato
(qualcuno direbbe irrigidito) in senso sempre più pessimista e cupo.
E' questo: siamo condannati a sopravvivere in un
universo meccanicistico, inumano, basato sul cieco caso – o è
possibile ritrovarvi un senso che ci porti ad essere felici?
Nel presente film, il
famoso prestigiatore Colin Firth applica all'universo la logica del
palcoscenico: tutto ciò che va al di là della realtà visibile è
trucco e inganno: “E' tutto fasullo, dal tavolo a tre gambe al
Vaticano”. Il film è ricco di battute carine come questa, ma ve
n'è solo una all'altezza del Woody Allen degli anni d'oro, quando il
protagonista ringhia: “Speriamo tutti che arrivi qualcuno dotato di
superpoteri, ma l'unico superpotere certo brandisce una falce”.
Un
amico e collega prestigiatore lo prega di aiutarlo, in base al
principio che ci vuole un illusionista per smascherare un altro
illusionista: lui ha cercato di smascherare una bella ragazza che
spopola come medium fra le famiglie ricche del Sud della Francia, e
pur essendo un esperto non c'è riuscito. Così... non era stato
ancora fondato il CICAP, ma Colin Firth si precipita verso la Riviera
con tutta la righteousness
vendicatrice di un Piero Angela incazzato. Troppa, e troppo
sprezzante e supponente è l'uomo, perché non si sospetti che c'è
molta debolezza nascosta. E infatti succede quel che accade in molti
film di Woody Allen: un evento imprevisto manda in aria il castello
delle certezze del personaggio e fa emergere il suo vero io. Qui è
(spoiler) il fatto che Emma Stone si rivela anche ai suoi occhi
dotata di potere sovrannaturali. Lo scettico accanito diventa
fervente credente - e arriva l'amore.
Sulla
carta tutto questo – che copre solo la prima delle grandi giravolte
filosofico-esistenziali del film – è assai bello. Il problema è
che la resa cinematografica non corrisponde per qualità al fascino
dell'idea; si ripete quella discrasia tra il concetto e la sua
realizzazione che già caratterizzava Hollywood
Ending – ma almeno là c'era
l'oltraggiosa originalità dell'invenzione del regista
cinematografico cieco. Qui, c'è molta saggezza (grande la zia Eileen
Atkins, superba la sua discussione finale col nipote), ma questo
discorso sull'illusione e la realtà era stato meglio espresso - solo
per frugare tra i film alleniani recenti - in You Will Meet a Tall
Dark Stranger (quel film che in
Italia si chiama Incontrerai
l'uomo dei tuoi sogni sui
manifesti ma non sulla copia, che fa testo). Tutto è già visto,
dalla riflessione dubitosa sulla preghiera (Crimini e
misfatti) al personaggio
dell'egocentrico buffo nella sua esagerazione (Accordi e
disaccordi); ma tutto ha una
mancanza di verve, e di quella poesia che era propriamente alleniana:
così il già visto
diviene déja vu.
Certo,
in Magic in
the Moonlight il meglio, più
che la storia, è l'atmosfera incantata, simile a quelle che così
spesso Allen ha frequentato, e cito solo Una commedia sexy
in una notte di mezza estate.
Tuttavia manca qui la
leggerezza densa (ossimoro) di quel film e dei suoi confratelli. Film
corretto, ben recitato, Magic
in the Moonlight contiene
troppo poca magic per
soddisfarci, e ancor meno moonlight.
Restiamo con l'impressione che Woody Allen in diverse scene sembri
aver fretta. Ma in realtà non è una questione di fretta o di tempo:
è che si intuisce che non ci mette l'anima.
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