Orson Welles
Vi
sono due misteri nell'Otello
di Shakespeare, dal quale Orson Welles ha tratto lo splendido film
che ci mise tre anni a girare (1949-51), costruendolo a pezzi e
bocconi ogni volta che trovava finanziamenti.
Il
primo mistero, naturalmente, è Iago: nella sua azione velenosa su
Otello quel che ci spaventa è la sua irriducibilità a un motivo.
Possiamo razionalizzarla in tanti modi, dall'ambizione frustrata
all'impotenza sessuale che Welles suggerì all'interprete Micheál
mac Liammóir
(senza però insisterci troppo); ma sempre ci scontriamo con quelle
sue terribili parole della conclusione: “Demand me nothing; what
you know, you know”.
Con un impiego
geniale del profilmico, architettonico e scenografico, Welles rende
meravigliosamente la rete mentale in cui Iago imprigiona Otello e
tutte le sue vittime. E' un film frammentato tanto sul piano del
montaggio quanto sul piano visivo; l'inquadratura è frazionata e
sovente imprigiona i personaggi in grate, losanghe, sbarre.
E
appunto il secondo mistero è Otello. Come può un uomo “del mondo
esperto” come il Moro farsi impaniare con tanta facilità? Certo,
Welles nel famoso libro-intervista a Peter Bogdanovich (Io,
Orson Welles,
Baldini & Castoldi, Milano, 1966) dice: è un soldato, non
conosce le donne. Sì, ma questo soldato, moro, da schiavo è
diventato generale veneziano; fosse così facile da ingannare,
sarebbe caduto rovinosamente molti anni prima. Se è lecito scherzare
su materia così grave, e non si rivolti il Bardo nella tomba, quando
ci offendono le sventure di Desdemona ci vien da dire che la
tragedia, meglio che Othello
the Moor of Venice,
avrebbe potuto chiamarsi Othello
the Moron of Venice
(moron
com'è noto vuol dire babbeo).
Otello,
senza dubbio, prima di tutto è un uomo d'arme. Nello straziante
monologo, in Cipro, con cui dà l'addio alla
sua vita felice e a
se stesso, ormai convinto del tradimento di Desdemona, enumera e
saluta per sempre quegli oggetti e segni
della vita militare tramite i quali si è elevato. “Othello's
occupation's gone”, scandisce Welles come un rintocco funebre,
mentre la nave veneziana di Lodovico urta la banchina e la vela cala,
commento visuale al testo parlato.
E tuttavia:
ascoltiamo il suo discorso al Senato, all'inizio della tragedia. E'
lì per difendersi da ben gravi accuse: rapimento, stupro, magia, ai
danni della figlia di uno dei grandi della Repubblica, e per di più
da parte di un Moro (ai mori si attribuiva tradizionalmente
un'inusuale carica di lussuria). Entra Otello. “Most potent, grave
and reverend Signiors”...
La
sovrana bellezza della sua orazione si misura tutta nel cadenzato
splendore di questo solenne incipit.
Questo discorso non serve solo a fornire le proprie giustificazioni;
serve a porre chi lo pronuncia su un piano di parità coi suoi
ascoltatori. Egli getta in faccia l'eloquenza e la gravitas
del suo dire a chi lo ritiene poco più che un mercenario. Non sono
un barbaro, dice Otello, sono nobile quanto voi; l'elegante
costruzione retorica del mio discorso vi dice che sono un cortegiano.
Sì, Otello sa raffinatamente parlare (anche se retoricamente lo
nega): è il potere della sua parola
che ha conquistato Desdemona.
Ma le ossessive spie
linguistiche del testo shakespeariano, che Welles sottolinea nella
sua riduzione filmica, raccontano una storia diversa, una storia di
inconsci (o meglio, semi-consci) dubbi e terrori. Il terrore del Moro
è di essere effettivamente quello che gli altri vedono in lui: di
essere nero (anche per i suoi amici: Cassio brinda “Alla salute del
nero Otello”), “fuligginoso”, selvaggio; “un indiano”, dirà
lui stesso nel finale. Già nel discorso in Senato è fiero come
Ulisse, ma Welles ci mostra la sfumatura di dolore che gli passa in
viso sulle parole “sold in slavery”. Teme nell'anima ancora di
essere “schiavo” (un termine che per contrappasso nel finale sarà
usato come insulto verso Iago).
La
breve scena del suo saluto a Desdemona (che deve raggiungerlo a Cipro
più tardi) è preceduta dall'inquadratura dei Mori che battono le
ore (schiavi di bronzo!). Rappresentano sul piano visuale quella
distanza tra Otello e Venezia che il generale nega a se stesso perché
è una distanza dalla propria auto-immagine. Un brusco stacco ci
porta da Venezia a quell'incubo febbrile che è Cipro – Welles non
intende costruire un mondo realista ma un paesaggio mentale (Santos
Zunzunegui, Orson
Welles,
Cátedra,
Madrid, 2005).
Ecco dunque dove
giace la radice della sua ingenuità. Iago canta a Otello la canzone
che egli teme oscuramente sia il vero: come può Desdemona amare il
Moro? Più tardi, quando ormai lo ha ben avviluppato, Iago è
addirittura insultante: parla di quell'unione come perversione,
quindi dimostrazione di lussuria, ergo propensione al tradimento.
“Men
should be what they seem”, ripete Otello con Iago nella loro
camminata sulle mura della fortezza di Cipro, seguita in carrellata.
Otello ha costruito la sua personalità di generale e cortigiano in
opposizione a schiavo moro; è lacerato dalla paura che si apra uno
iato tra la propria auto-immagine e le sue origini, che quella
personalità che si è costruita sia solo una sovrastruttura fragile
e artificiale sotto la quale si rivela il selvaggio. Non per nulla in
una scena Welles ci mostra Otello riflesso nello specchio mentre
ascolta gli insinuanti veleni di Iago: inizia la scissione della
personalità.
Un
dettaglio è degno di nota: nella sequenza citata della passeggiata
sulle mura (in cui Otello resiste per l'ultima volta a Iago, minaccia
di ucciderlo, ma poi cede e d'ora in avanti si farà manovrare da
lui), Otello indossa un indumento arabo, un burnus
dall'ampio
cappuccio con la nappa. Esso rappresenta simbolicamente il suo
ritornare al suo mondo originario: altro segno del crollo della sua
personalità. E infatti proprio in quella scena Otello, imprecando
contro Desdemona, dice che il nome di lei è nero “as my own face”
- è una folgorante rivelazione di sé.
Poco
dopo, vediamo la crisi epilettica di Otello. Il Moro è disteso a
terra, i gabbiani, in soggettiva, riempiono il cielo. Come osserva
Peter Conrad nel suo splendido Orson
Welles: The Stories of His Life
(Faber and Faber, New York, 2003), qui Welles mescola significati
verbali e visuali. I gabbiani (gulls),
che furono attirati faticosamente spargendo grano, rimandano al
gullible
(ingenuo) Otello, e infatti Emilia nel quinto atto lo chiama “O
Gull!”. La gente guarda dalle mura e ride, con confusione sonora
tra le risa e le strida dei gabbiani. Questo è l'orrore di esser
visto nella debolezza e nella sconfitta; il generale è divenuto
ridicolo.
Spostiamoci
ora a una scena precedente, la festa a Cipro, quando Iago convince
Cassio a ubriacarsi, e ne segue la rissa di Cassio con Roderigo, con
un combattimento nell'acqua in una struttura labirintica, irreale: fu
girato in un'antica cisterna portoghese del XV secolo, “la risposta
portoghese a Poe”, come annota spiritosamente Micheál
mac Liammóir
nel libro in cui ha raccontato la sua esperienza (L'onesto
Iago,
Giunti, Firenze, 1995). Soprattutto
va sottolineata la presenza della gente che guarda dall'apertura
rotonda in alto: ciò corrisponde a quel terrore dello sguardo,
quella violazione dell'intimità, che attraversa il film. E infatti
nel finale compare un'analoga apertura, si apre un lucernaio - simile
a un occhio gigantesco - nel soffitto nella camera da letto di
Otello. Questa violazione corrisponde ai terrori più profondi del
Moro. Egli teme appunto di essere visto spoglio della sua veste di
uomo civilizzato, di essere ridotto dallo sguardo impietoso al
barbaro che teme di essere. E' guardando verso questo “occhio”
che Otello (inquadrato dall'alto su fondo nero, richiamo visuale al
funerale che apre il film) pronuncia la sua tragica confessione, in
cui si paragona a un miserabile indiano la cui mano ha buttato via
una perla che valeva più di tutta la sua tribù. Al tempo di
Shakespeare, quando la scoperta dell'America è ancora fresca,
l'indiano è il prototipo del selvaggio; è all'indiano che
Shakespeare pensa nel tratteggiare la figura di Calibano ne La
tempesta.
Nelle
sequenze finali, scrive acutamente Maurizio Del Ministro (Othello
di Welles,
Bulzoni, Roma, 2000) “la terra sembra essere minacciata da
un'eclissi o una conflagrazione”. Ma possiamo specificare questo
concetto collegandolo al lucernario che si apre sulla camera. Mundus
patet,
dicevano i Romani nei tre giorni in cui veniva aperto il mundus,
la fossa sacra ai Mani, e il mondo dei morti e quello dei vivi erano
in comunicazione. Anche per Otello, nel momento che la sua realtà è
crollata, mundus
patet,
i fantasmi del suo inconscio ne sono usciti (l'apertura dall'alto
indica che sono terrori connessi alla visione) - e quell'apertura
rotonda si richiude solo quando Otello stramazza morto al suolo.
Già
pubblicato in “Mente ad arte. Percorsi
artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre”
a
cura di Matteo Balestrieri – www.psychiatryonline.it
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