domenica 4 gennaio 2015

Othello

Orson Welles

Vi sono due misteri nell'Otello di Shakespeare, dal quale Orson Welles ha tratto lo splendido film che ci mise tre anni a girare (1949-51), costruendolo a pezzi e bocconi ogni volta che trovava finanziamenti.
Il primo mistero, naturalmente, è Iago: nella sua azione velenosa su Otello quel che ci spaventa è la sua irriducibilità a un motivo. Possiamo razionalizzarla in tanti modi, dall'ambizione frustrata all'impotenza sessuale che Welles suggerì all'interprete Micheál mac Liammóir (senza però insisterci troppo); ma sempre ci scontriamo con quelle sue terribili parole della conclusione: “Demand me nothing; what you know, you know”.
Con un impiego geniale del profilmico, architettonico e scenografico, Welles rende meravigliosamente la rete mentale in cui Iago imprigiona Otello e tutte le sue vittime. E' un film frammentato tanto sul piano del montaggio quanto sul piano visivo; l'inquadratura è frazionata e sovente imprigiona i personaggi in grate, losanghe, sbarre.
E appunto il secondo mistero è Otello. Come può un uomo “del mondo esperto” come il Moro farsi impaniare con tanta facilità? Certo, Welles nel famoso libro-intervista a Peter Bogdanovich (Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano, 1966) dice: è un soldato, non conosce le donne. Sì, ma questo soldato, moro, da schiavo è diventato generale veneziano; fosse così facile da ingannare, sarebbe caduto rovinosamente molti anni prima. Se è lecito scherzare su materia così grave, e non si rivolti il Bardo nella tomba, quando ci offendono le sventure di Desdemona ci vien da dire che la tragedia, meglio che Othello the Moor of Venice, avrebbe potuto chiamarsi Othello the Moron of Venice (moron com'è noto vuol dire babbeo).
Otello, senza dubbio, prima di tutto è un uomo d'arme. Nello straziante monologo, in Cipro, con cui dà l'addio alla sua vita felice e a se stesso, ormai convinto del tradimento di Desdemona, enumera e saluta per sempre quegli oggetti e segni della vita militare tramite i quali si è elevato. “Othello's occupation's gone”, scandisce Welles come un rintocco funebre, mentre la nave veneziana di Lodovico urta la banchina e la vela cala, commento visuale al testo parlato.
E tuttavia: ascoltiamo il suo discorso al Senato, all'inizio della tragedia. E' lì per difendersi da ben gravi accuse: rapimento, stupro, magia, ai danni della figlia di uno dei grandi della Repubblica, e per di più da parte di un Moro (ai mori si attribuiva tradizionalmente un'inusuale carica di lussuria). Entra Otello. “Most potent, grave and reverend Signiors”...
La sovrana bellezza della sua orazione si misura tutta nel cadenzato splendore di questo solenne incipit. Questo discorso non serve solo a fornire le proprie giustificazioni; serve a porre chi lo pronuncia su un piano di parità coi suoi ascoltatori. Egli getta in faccia l'eloquenza e la gravitas del suo dire a chi lo ritiene poco più che un mercenario. Non sono un barbaro, dice Otello, sono nobile quanto voi; l'elegante costruzione retorica del mio discorso vi dice che sono un cortegiano. Sì, Otello sa raffinatamente parlare (anche se retoricamente lo nega): è il potere della sua parola che ha conquistato Desdemona.

Ma le ossessive spie linguistiche del testo shakespeariano, che Welles sottolinea nella sua riduzione filmica, raccontano una storia diversa, una storia di inconsci (o meglio, semi-consci) dubbi e terrori. Il terrore del Moro è di essere effettivamente quello che gli altri vedono in lui: di essere nero (anche per i suoi amici: Cassio brinda “Alla salute del nero Otello”), “fuligginoso”, selvaggio; “un indiano”, dirà lui stesso nel finale. Già nel discorso in Senato è fiero come Ulisse, ma Welles ci mostra la sfumatura di dolore che gli passa in viso sulle parole “sold in slavery”. Teme nell'anima ancora di essere “schiavo” (un termine che per contrappasso nel finale sarà usato come insulto verso Iago).
La breve scena del suo saluto a Desdemona (che deve raggiungerlo a Cipro più tardi) è preceduta dall'inquadratura dei Mori che battono le ore (schiavi di bronzo!). Rappresentano sul piano visuale quella distanza tra Otello e Venezia che il generale nega a se stesso perché è una distanza dalla propria auto-immagine. Un brusco stacco ci porta da Venezia a quell'incubo febbrile che è Cipro – Welles non intende costruire un mondo realista ma un paesaggio mentale (Santos Zunzunegui, Orson Welles, Cátedra, Madrid, 2005).
Ecco dunque dove giace la radice della sua ingenuità. Iago canta a Otello la canzone che egli teme oscuramente sia il vero: come può Desdemona amare il Moro? Più tardi, quando ormai lo ha ben avviluppato, Iago è addirittura insultante: parla di quell'unione come perversione, quindi dimostrazione di lussuria, ergo propensione al tradimento.
Men should be what they seem”, ripete Otello con Iago nella loro camminata sulle mura della fortezza di Cipro, seguita in carrellata. Otello ha costruito la sua personalità di generale e cortigiano in opposizione a schiavo moro; è lacerato dalla paura che si apra uno iato tra la propria auto-immagine e le sue origini, che quella personalità che si è costruita sia solo una sovrastruttura fragile e artificiale sotto la quale si rivela il selvaggio. Non per nulla in una scena Welles ci mostra Otello riflesso nello specchio mentre ascolta gli insinuanti veleni di Iago: inizia la scissione della personalità.
Un dettaglio è degno di nota: nella sequenza citata della passeggiata sulle mura (in cui Otello resiste per l'ultima volta a Iago, minaccia di ucciderlo, ma poi cede e d'ora in avanti si farà manovrare da lui), Otello indossa un indumento arabo, un burnus dall'ampio cappuccio con la nappa. Esso rappresenta simbolicamente il suo ritornare al suo mondo originario: altro segno del crollo della sua personalità. E infatti proprio in quella scena Otello, imprecando contro Desdemona, dice che il nome di lei è nero “as my own face” - è una folgorante rivelazione di sé.

Poco dopo, vediamo la crisi epilettica di Otello. Il Moro è disteso a terra, i gabbiani, in soggettiva, riempiono il cielo. Come osserva Peter Conrad nel suo splendido Orson Welles: The Stories of His Life (Faber and Faber, New York, 2003), qui Welles mescola significati verbali e visuali. I gabbiani (gulls), che furono attirati faticosamente spargendo grano, rimandano al gullible (ingenuo) Otello, e infatti Emilia nel quinto atto lo chiama “O Gull!”. La gente guarda dalle mura e ride, con confusione sonora tra le risa e le strida dei gabbiani. Questo è l'orrore di esser visto nella debolezza e nella sconfitta; il generale è divenuto ridicolo.
Spostiamoci ora a una scena precedente, la festa a Cipro, quando Iago convince Cassio a ubriacarsi, e ne segue la rissa di Cassio con Roderigo, con un combattimento nell'acqua in una struttura labirintica, irreale: fu girato in un'antica cisterna portoghese del XV secolo, “la risposta portoghese a Poe”, come annota spiritosamente Micheál mac Liammóir nel libro in cui ha raccontato la sua esperienza (L'onesto Iago, Giunti, Firenze, 1995). Soprattutto va sottolineata la presenza della gente che guarda dall'apertura rotonda in alto: ciò corrisponde a quel terrore dello sguardo, quella violazione dell'intimità, che attraversa il film. E infatti nel finale compare un'analoga apertura, si apre un lucernaio - simile a un occhio gigantesco - nel soffitto nella camera da letto di Otello. Questa violazione corrisponde ai terrori più profondi del Moro. Egli teme appunto di essere visto spoglio della sua veste di uomo civilizzato, di essere ridotto dallo sguardo impietoso al barbaro che teme di essere. E' guardando verso questo “occhio” che Otello (inquadrato dall'alto su fondo nero, richiamo visuale al funerale che apre il film) pronuncia la sua tragica confessione, in cui si paragona a un miserabile indiano la cui mano ha buttato via una perla che valeva più di tutta la sua tribù. Al tempo di Shakespeare, quando la scoperta dell'America è ancora fresca, l'indiano è il prototipo del selvaggio; è all'indiano che Shakespeare pensa nel tratteggiare la figura di Calibano ne La tempesta.
Nelle sequenze finali, scrive acutamente Maurizio Del Ministro (Othello di Welles, Bulzoni, Roma, 2000) “la terra sembra essere minacciata da un'eclissi o una conflagrazione”. Ma possiamo specificare questo concetto collegandolo al lucernario che si apre sulla camera. Mundus patet, dicevano i Romani nei tre giorni in cui veniva aperto il mundus, la fossa sacra ai Mani, e il mondo dei morti e quello dei vivi erano in comunicazione. Anche per Otello, nel momento che la sua realtà è crollata, mundus patet, i fantasmi del suo inconscio ne sono usciti (l'apertura dall'alto indica che sono terrori connessi alla visione) - e quell'apertura rotonda si richiude solo quando Otello stramazza morto al suolo.

Già pubblicato in “Mente ad arte. Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre” a cura di Matteo Balestrieri – www.psychiatryonline.it 
 

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